Tratto dai romanzi di Johanna Spyri e sceneggiato da Petra Volpe, è dal 24 marzo sul grande schermo Heidi, il film diretto da Alain Gsponer con protagonisti Anuk Steffen, Bruno Ganz, Isabelle Ottmann, Katharina Schüttler e Maxim Mehmet.
Heidi (Anuk Steffen), una bambina rimasta orfana, trascorre i giorni più felici della sua infanzia con il nonno Almöhi (Bruno Ganz), un tipo eccentrico che vive isolato da tutti in una baita sulle montagne svizzere. Insieme al suo amico Peter, Heidi si occupa delle capre di Almöhi, godendosi la libertà tra le montagne. Ma questa epoca spensierata si interrompe bruscamente quando Heidi viene condotta a Francoforte da sua zia Dete (Anna Schinz).
L’idea è di farla vivere con la famiglia del ricco signor Sesemann (Maxim Mehmet) e di farla diventare una compagna di giochi per Klara (Isabelle Ottmann), la figlia di Sesemann, costretta su una sedia a rotelle. Allo stesso tempo Heidi potrà imparare a leggere e a scrivere sotto la supervisione di una severa governante, la signorina Rottenmeier (Katharina Schüttler). Nonostante le due ragazzine diventino subito amiche, e la nonna di Klara faccia sbocciare in Heidi una passione per i libri, la nostalgia per le montagne e per Almöhi diventa ogni giorno più forte.
Vi presentiamo ora un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Alain Gsponer.
Heidi è una storia famosa in tutto il mondo che è già diventata un film diverse volte. Hai accettato subito quando ti hanno proposto di dirigerlo?
Quando mi hanno offerto di fare il film ci ho pensato molto. L’immagine di Heidi è stata spesso usata male e mi chiedevo se si sentisse davvero la necessità di un altro film. Prima ho riletto i romanzi di Johanna Spyri che mi hanno coinvolto molto, soprattutto il primo. Ci sono dentro moltissime cose. E’ un dramma sociale molto potente. Un fattore importante che ha contribuito a fami accettare l’offerta è stato quello che mi ha detto mio padre: “Ricordati, questa non è roba per bambini. E’ una storia per adulti“. Devo aggiungere che mio padre da bambino era un pastore di capre ed è cresciuto sulle montagne, come Peter. Ha conosciuto la povertà e il mondo descritto nei libri della Spyri. Ecco perché “Heidi” non è mai stato per lui un romanzo per bambini, ma il dramma di un’orfanella.
Che rapporto ha la Svizzera con Heidi?
Come ho detto, sono molto irritato dall’uso errato che è stato fatto di Heidi. Si tratta di materiale prezioso che rivela molto della Svizzera. Da una parte racconta molto delle persone e delle restrizioni subite. Racconta di Heidi, che viene reclusa da sua zia Dete, e che è estremamente infelice dopo la morte dei suoi genitori. Fino a quando non arriva in un posto sulle Alpi dove può sbocciare in quei grandi spazi aperti. Poi c’è qualcuno che vive in quegli stessi luoghi, cioè Almöhi, per il quale il villaggio è un posto claustrofobico che ha dovuto lasciare perché gli altri abitanti non lo accettavano, e che si è trovato uno spazio tutto suo. Dall’altro lato c’è Klara, prigioniera nella sua villa, che nonostante le sue dimensioni comunica ugualmente claustrofobia. O il domestico Sebastian, che si sente oppresso dalle Alpi quando vi riaccompagna Heidi. Così tutto tratta di isolamento, e del bisogno di trovarsi uno spazio proprio. Sono temi elementari e appassionanti. Penso sia un peccato quando tutto viene ridotto all’idea di “Heidi e del suo mondo ideale“, cosa che, purtroppo, accade di frequente.
Esattamente cosa rende Heidi una storia senza tempo, o perfino attuale?
Una storia che parla di una fuga dalla segregazione e dalle costrizioni, e della ricerca di un luogo in cui potersi realizzare è, secondo me, senza tempo. Quante volte le persone si trovano in posti in cui non vorrebbero stare, perché così viene deciso da altri o dalle norme sociali? E’ un tema sempre attuale.
Fino a che punto sei stato coinvolto nella sceneggiatura?
Dato che mi è stato chiesto di far parte del progetto quando era ancora agli inizi, ho potuto esprimere fin da quel momento le mie osservazioni sulla prima stesura, per la quale non ero stato coinvolto. Da quel momento è iniziata una collaborazione abbastanza stretta con Petra Volpe. Gran parte di ciò che per me era davvero importante era già presente nella prima stesura, e vi abbiamo aggiunto solo alcuni aspetti. Tutti i più piccoli dettagli erano importanti. Volevo rendere esplicito cosa significhi vivere in povertà, cosa significasse per Öhi sentirsi escluso dagli altri abitanti del villaggio, cosa significhi avere fame o – come nel caso di Peter – perdere un genitore. Volevo che ogni dettaglio fosse preso sul serio. Ci siamo anche impegnati molto per descrivere la vita nella villa di Francoforte, i riti a tavola, l’assurda pantomima delle regole della servitù, il fatto che le posate fossero diverse da quelle di oggi. Ho pensato anche che fosse importante mostrare nelle sequenze a casa dei Sesemann il fatto che vivono come se fossero imprigionati, stando poco all’aperto, perfino i bambini. Piuttosto, hanno portato all’interno della casa il mondo esterno. La carta da parati, i materiali – tutto rappresenta in un certo senso la natura. Ci sono rappresentate sempre piante, alberi e perfino animali. Dappertutto. Questa imitazione della natura trasforma la villa in una specie di gabbia. E per me era importante mostrare tutte queste sfumature sociali.
In cosa è diverso questo film su Heidi dai precedenti?
Abbiamo preso sul serio il romanzo e la sua epoca. Ovviamente alla fine del nostro film appare un mondo ideale in cui Klara torna a camminare. Ma nel corso della storia mostriamo un mondo diviso, come è descritto nel romanzo della Spyri. Abbiamo fatto sempre riferimento ai libri di Johanna Spyri, carpendone gli aspetti importanti per questo tema universale, e volevamo anche comunicare il nostro sentirci fortunati per aver superato cose che esistevano a quei tempi, come la povertà o la cupa pedagogia della Signorina Rottenmeier o, più in generale, il tipo di insegnamento impartito nella Svizzera di allora.