Proprio in questi giorni (dal 25 al 28 giugno), a Bologna si celebrano i cento anni di Charlot, l’immenso personaggio ideato e portato sul grande schermo nel 1914 dal genio di Charlie Chaplin. Pensando a questo piccolo grande uomo entrato nel mito del cinema, nel 2012 lo scrittore Fabio Stassi ha scritto L’Ultimo Ballo di Charlot (edito da Sellerio), un bellissimo romanzo che è stato tradotto in ben 19 lingue e che ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti.
Un grande successo che sottolinea l’enorme fascino ed importanza che Chaplin e il suo personaggio Charlot hanno ancora nella società contemporanea. Abbiamo così deciso di scrivere qualche domanda a Fabio Stassi che, come è solito fare quando scrive le sue opere, ci ha risposto durante un viaggio in treno. Lo scrittore ha da poco pubblicato – sempre per Sellerio – il suo ultimo libro Come un Respiro Interrotto.
Sono passati 100 anni dalla nascita di Charlot. Cosa ha rappresentato per lei quel personaggio ideato da Charlie Chaplin?
Il Vagabondo per me rappresenta tutto il genere umano perduto. È l’espressione più poetica degli emarginati, che sono senza voce appunto, come lui. Ma ci ha insegnato l’alfabeto dei sentimenti, quante parole ci possono essere in un film muto. Nessun altro ha avuto una voce più forte di lui che non la usava. Ha raccontato gli esseri umani, la loro fragilità, la loro allegria e la loro tristezza, l’altruismo e il capriccio, l’invenzione e i soprusi, l’ingiustizia e questa necessità infantile di riparazione di tutte le storture.
Come e quando le è nata l’idea di scrivere L’Ultimo Ballo di Charlot? Cosa l’ha ispirata maggiormente?
L’ispirazione, se possiamo usare questa parola, risiede nella mia infanzia. A casa mia a Natale apparecchiavano anche per lui, come se fosse uno di famiglia, un emigrante, un desterrado come loro, uno che si era andato a cercare il suo destino da un’altra parte puntando tutto solo sul proprio talento. Io mi sedevo vicino a questa sedia vuota. Diciamo che per me è sempre esistito, un fantasma molto più in carne e ossa di tante persone che ho conosciuto dopo.
Il suo romanzo ha avuto molto seguito ed è stato tradotto in 19 lingue. Quanto continua ad essere potente il richiamo di Charlot nel mondo?
Le tante traduzioni sono state una specie di miracolo inatteso e imprevedibile. Ma ogni tanto accadono anche le cose belle, e non sembra vero. Sono sicuro che Charlot è ancora tremendamente e scandalosamente attuale. Il mondo è sempre più pieno di gente come lui: vagabondi, diseredati, inadatti alla vita, gente con i vestiti fuori misura, uomini mancini che camminano dalla parte sbagliata del marciapiede. Ed è ancora irriverente, e sovversiva, la sua danza, perché carica solo di umanità. Ma per questo di una forza in cui abbiamo dimenticato a credere.
Quanto è importante, a livello di insegnamento, ripresentare ai giovani ragazzi ipertecnologici di oggi i film muti di Chaplin?
Mi è capitato spesso di andare nelle scuole e domandare se qualcuno avesse visto un suo film. La risposta è quasi sempre stata di no. Ai licei, agli istituti, alle medie. A tutti loro ho sempre detto che li invidio, perché la vita gli riserva ancora una delle felicità più grandi per un essere umano, quella di imbattersi per la prima volta in un film di Chaplin. Per noi è diverso, noi ci siamo cresciuti. Ma i ventenni a cui ho mostrato Tempi Moderni o La Febbre dell’Oro ridevano e si commuovevano come bambini. Chaplin è fuori dal tempo. Parla a chiunque, e il suo linguaggio non potrà mai deteriorarsi. Le parole possono cambiare di significato, appannarsi, essere sostituite. Ma l’espressione dei sentimenti che ha inscenato Chaplin con la sua maschera no, perché è universale, perché è in quel modo che proviamo un torto o un innamoramento, la fame o la voglia di riscatto, la scommessa di mettersi in viaggio e lo sgomento per il destino che ci sovrasta.
1914-2014, proviamo a fantasticare: come se lo immagina Charlot nella società moderna?
Me lo immagino con i suoi panni di sempre. E’ come Arlecchino, come Pinocchio. Se penso a lui che tenta di attraversare una strada trafficata di New York mi metto a ridere. Chissà quante occasioni di farci divertire avrebbe trovato. La società di oggi, con la sua disperazione e le sue possibilità, sarebbe stata un teatro ancora più grande alla sua fantasia. Lo sguardo di Charlot ci avrebbe svelato, con il suo implacabile umorismo, cosa c’è dietro alle nostre città e alla nostra solitudine. Ci avrebbe fatto ridere e piangere come mai.
Allo stesso modo, secondo lei cosa penserebbe Charlie Chaplin del cinema di oggi? Esistono ancora autori e comici che possono in qualche modo (anche lontanamente) ricordarcelo?
Sono certo che se c’è stato uno come lui, non possiamo che sperare. Perché la peggiore omologazione, ci avrebbe detto Chaplin stesso, è proprio smettere di sperare. Certo, ci vorrà un po’ di tempo prima che le combinazioni di una singola vita individuale possano formare un altro artista così complesso. Verrà qualcuno che si misurerà con i suoi stessi temi, e lo farà in altro modo. Quello che mi auguro di trovare, e che cerco sempre, è quella sua particolare qualità poetica che lui ha seminato nel mondo e che non può che continuare a rifiorire da qualche parte.
Le chiedo qual è il suo film preferito su Chaplin e perché…
Il mio film preferito è Luci della Città. Lo avrò visto decine di volte, e mi emoziona sempre. Credo perché racconta una storia di restituzione, come tutte le favole, e di riconoscimento. Il Vagabondo non restituisce solo la vista alla fioraia ma una speranza dopo la non speranza. Ridona la speranza a un cieco, è una follia, e solo un pazzo e un incosciente come lui può crederci. E lei, la fioraia, con il volto di un attrice che interpretò praticamente quel solo film, Virginia Cherril, alla fine, lo riconosce, e lo fa attraverso il tatto. L’ultima scena, quando lo tocca e lo riconosce, per me è la più bella dell’intera storia del cinema. E’ come se ci prendesse tutti per mano.
Intervista di Giacomo Aricò