Debutta il 9 ottobre al Teatro Argentina di Roma (dove resterà fino al 14 ottobre), in prima italiana, Quasi Niente, la nuova attesa creazione dell’acclamato duo Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. I due premi Ubu per l’innovazione alla drammaturgia, s’ispirano a uno dei capolavori del cinema italiano, Il Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni con una indimenticabile Monica Vitti, per proseguire la loro ricerca intorno alla condizione di “marginalità” quale chiave di lettura del nostro presente e forma di resistenza “in sottrazione”.
Vi proponiamo le note di regia dei due autori.
Dal film di Michelangelo Antonioni
“Oggetto di partenza del nostro nuovo progetto è Il Deserto Rosso, lo straordinario film del 1964, prima opera a colori di Michelangelo Antonioni, che a partire – sembra – da un breve racconto di Tonino Guerra vede in scena una straziante e fanciullesca Monica Vitti. Giuliana, moglie e madre, attraversa il deserto – in una scena veramente rosso – della sua vita senza che nessuno possa realmente toccarla, senza toccare a sua volta nessuno. Nemmeno l’incontro con Corrado, amico del marito, per tanti versi simile a lei, riesce a cambiare le cose. Poche le parole, alcune talmente belle da diventare proverbiali (“Mi fanno male i capelli”, la più nota, presa in prestito da una poesia di Amelia Rosselli) e protagonista assoluto il paesaggio, una Romagna attorno a Ravenna trasfigurata dal regista (“ho dipinto la realtà” dichiarava all’epoca) in un mondo dove malattia e bellezza coincidono con un cortocircuito di senso e di sensi che ancora oggi ci sbalordisce. Un oggetto ingombrante, visto, discusso e sviscerato. Il Deserto Rosso è una delle opere centrali non solo del cinema italiano e internazionale, ma delle arti visive del Novecento”.
Giuliana
“La nostra scelta è quella di essere cinque in scena, tre donne, due uomini. Prima di tutto per evitare il triangolo borghese, moglie-marito-amante, per avere la possibilità di lavorare liberamente attorno alla figura di Giuliana e infine per rispondere alla tensione anti-realistica del film. Infatti, se questa opera ci ha colpito è anche perché il film non è la sua trama, e questo ci corrisponde. Giuliana fa pienamente parte di una galleria di persone storte, riuscite a metà, è una ‘selvatica vestita elegante’. C’è qualcosa in lei che ci parla di una ricerca di verità che spesso, nella nostra sempre maggiore “capacità” di stare al mondo, abbiamo perso. Ci siamo adattati. Accomodati, abbiamo azittito domande come quelle che lei si pone: “Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?””.
L’alienazione
“Il nostro vuole essere un lavoro non solo sul disagio, la fragilità, sulle crepe, ma anche sulla fanciullezza di una donna che il mondo non sembra più interessato ad ascoltare. “C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cosa sia. E nessuno me lo dice” dice Giuliana. Il Deserto Rosso si interroga in maniera personalissima su quel cambiamento epocale che tutti gli artisti del dopoguerra hanno sofferto e raccontato: nel caso di Antonioni si è parlato di alienazione, Pasolini lo chiamava apertamente genocidio culturale. Quell’alienazione – termine non a caso desueto – ci appartiene talmente tanto che non siamo più in grado di avvertirla. La cerniera tra dentro e fuori in quest’opera è talmente sottile che non possiamo che essere sollevati dal fatto che il film inizi durante uno sciopero, che lo sfondo sia lo sfruttamento di operai chiamati a sradicarsi dalla loro terra per andare a lavorare all’estero. L’osmosi tra i due livelli del racconto in Antonioni non è né ideologica né risolutiva, ma scava, intreccia, sposta”.
Dove siamo ora?
“È qui che Quasi Niente racconta la nostra distanza da Il Deserto Rosso. Come se fossimo tutti Giuliana e nello stesso tempo nessuno fosse più lei. Più che essere ammalati in quanto individui, lo siamo come società e senza quel margine di immaginazione (“dietro al nostro fantasticare c’è il mondo intero” poteva scrivere Antonioni a Mark Rothko in una lettera) che rende Giuliana la figura più vera, più singolare, più viva del film. Ora siamo in un mondo che sembra aver perfettamente compiuto quella parabola di disagio, rendendola addirittura positiva e insuperabile. Il mondo che un giovane teorico della cultura, Mark Fisher, ha definito del “realismo capitalista”. Un realismo che non è come gli altri: è un realismo integrale, senza porte e senza finestre, che ha preventivamente escluso ogni altra visione del mondo, sussunto ogni passato, ipotecato ogni futuro. Ma è proprio questa la scommessa marginale del teatro: continuare a far intravedere il “mondo intero” dietro un impotente fantasticare e i limiti di “questo mondo” dietro la potenza con cui schiaccia i singoli”.
“Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà”.
Michelangelo Antonioni