Dal 23 ottobre al 4 novembre al Teatro Argentina di Roma approda un maestro dell’avanguardia italiana anni Settanta, protagonista della stagione delle “cantine” romane, Giancarlo Sepe, che porta in scena Barry Lyndon, trasposizione del romanzo di William Makepeace Thackeray, dal quale Stanley Kubrick ha tratto uno dei suoi capolavori.
Una lezione “sull’arte della vita”, prendendo a pretesto il protagonista dell’opera che, da povero a ricco aristocratico, subisce la scalata sociale alle soglie della Rivoluzione Francese. Dal romanzo alla trasposizione teatrale, Giancarlo Sepe agguanta le emozioni dal film del 1975 di Kubrick e le situazioni dall’opera picaresca di Thackeray, dirigendo dodici attori nella favola nera di Redmond Barry di Barry du Barry, un uomo «che da povero è voluto diventare un capriccioso ricco aristocratico, nel momento sbagliato, nell’ora in cui cadono le teste dei vanitosi ricchi aristocratici – spiega Sepe – è un uomo che non sa di storia e che da sprovveduto è destinato a soccombere al primo mutar del vento, illuso e maltrattato da tutti e dal suo arrivismo inarrestabile».
Quella di Redmond Barry è la storia di un uomo sospeso nei suoi sogni, schiavo delle proprie ambizioni, pronto a costruire un impero di menzogne pur di scalare, gradino dopo gradino, la scalinata impervia e marmorea di una società organizzata per caste. Non è un eroe e la sua non è una favola a lieto fine, eppure c’è una morale.
Quello in scena è «un teatro dove non trionfa la verità e che si imbeve però delle storie che si tramandano, che si raccontano come monito per chi ha peccato e per chi, giovane, deve ancora peccare e vuole formarsi però all’ombra delle tradizioni – continua a commentare Giancarlo Sepe – Forse, lo si potrebbe anche scambiare per un teatro per famiglie, quello in cui la morale è: …chi sbaglia, paghi finalmente!». Ecco allora che un classico della letteratura diventa il mezzo per parlare ad un pubblico contemporaneo attraverso una storia di caduta, una favola all’incontrario.
Ci accolgono sul palcoscenico attori vestiti di tutto punto alla maniera settecentesca, immobili come statue di cera, mentre alcuni curiosi visitatori, quasi si trattasse davvero di un museo, passeggiano in mezzo a tanta fissità con sguardo curioso. Da qui prende il via la storia. Grazie a un uso sapiente della musica, che accompagna o fa da contrappunto alle emozioni dei personaggi, la trama di dipana attraverso le tinte fosche o luminose delle scene, sostenute di volta in volta da musiche di Mozart, Haendel, Paisiello, Schubert, Bach, Ligeti, e altri; ma non mancano i contemporanei, presenti con i Chieftians, Aphex Twin, Johansonn, Rachel’s e le cantate a cappella nella lingua dei padri celtici raccolti da Alan Lomax.
A differenza di quanto accadeva nel film, il protagonista «si racconta in prima persona nel suo lungo peregrinare nella notte che tutto accoglie e accetta, e non ha una grande dimestichezza con le buone maniere e i modi raffinati a cui la madre vorrebbe consegnarlo, vestendolo come un damerino di merletti e voile – prosegue Sepe – La forza di questo personaggio millantatore è che mostra le sue incapacità nel trasformare la sua vita in qualcosa di bello e travolgente sin dalle prime battute, sin dal suo amore sfortunato per la cugina avida e civetta, che da quel momento lo costringerà ad una discesa agli inferi ineluttabile e drammatica: una rappresentazione teatrale fatta di carne e vaghezza, in cui campeggiano i fatti dell’amore, ma anche quelli del tradimento e della seduzione. Duelli, incontri furtivi, fughe da Casanova spiantato, che incappa però nella donna più bella e desiderabile, con l’unico difetto di essere già sposata ad un vecchio ricco e senza alcuna voglia di farsi da parte». Amore, tradimento, seduzione fanno da sfondo alla vicenda amara e indimenticabile di un uomo sulla scala sdruccevole che porta all’inferno.