Presentato in concorso al 71° Locarno Festival e vincitore del Grand Prix du Jury Annecy Cinéma Italien, giovedì 8 novembre uscirà al cinema Menocchio, il film scitto e diretto da Alberto Fasulo ed interpretato da: Marcello Martini, Maurizio Fanin, Carlo Baldracchi, Nilla Patrizio, Emanuele Bertossi, Agnese Fior, Mirko Artuso, Giuseppe Scarfì, David Wilkinson, Roberto Dellai, Roberta Potrich e Gino Segatti.
Il film
Italia. Fine 1500. La Chiesa Cattolica Romana, sentendosi minacciata nella sua egemonia dalla Riforma Protestante, sferra la prima sistematica guerra ideologica di uno Stato per il controllo totale delle coscienze. Il nuovo confessionale, disegnato proprio in questi anni, si trasforma da luogo di consolazione delle anime a tribunale della mente. Ascoltare, spiare e denunciare il prossimo diventano pratiche obbligatorie, pena: la scomunica, il carcere o il rogo.
Menocchio (Marcello Martini), vecchio, cocciuto mugnaio autodidatta di un piccolo villaggio sperduto fra i monti del Friuli, decide di ribellarsi. Ricercato per eresia, non dà ascolto alle suppliche di amici e famigliari e invece di fuggire o patteggiare, affronta il processo. Non è solo stanco di soprusi, abusi, tasse, ingiustizie. In quanto uomo, Menocchio è genuinamente convinto di essere uguale ai vescovi, agli inquisitori e persino al Papa, tanto che nel suo intimo spera, sente e crede di poterli riconvertire a un ideale di povertà e amore.
Le parole di Alberto Fasulo
“Tutta la partita della vicenda di Menocchio si gioca all’interno di questo triangolo: Potere del Sistema ‐ Individuo ‐ Comunità. Ed è qui che abbiamo identificato il cuore del film, perché la parabola di Menocchio non è quella di un martire, mandato al rogo in nome delle proprie idee. O perlomeno non è solamente quella. La sua storia è più complessa, più contraddittoria, più vicina, più umana, perché un eretico che decide di rinnegare le proprie idee deve poi fare i conti non solo con la propria coscienza, ma anche con la macchia che questa abiura comporterà all’interno della sua comunità di appartenenza, specie se ha speso anni e anni a predicare la propria visione del mondo giurando di essere disposto persino a morire in sua difesa“.
“Fin dall’inizio ho sentito la necessità di confrontarmi con questo personaggio, riconoscendo in Menocchio un’evidente statura morale, ma poi ho compreso che il raggio della sua azione (e della riflessione che innesca) è ben più ampio; tutta la realtà attorno al protagonista ne viene in qualche modo coinvolta fino ad arrivare ad occupare il centro della scena. Si tratta di una relazione viscerale, potente, esistenziale, diretta, di vita o morte, che nella sua declinazione tra uomo e uomo, uomo e materia, materia e pensiero rivela le nostre radici ataviche. In un’epoca in cui qualsiasi minimo afflato etico, sacrale o spirituale che sia, viene ridicolizzato, distrutto, disintegrato con un semplice tweet, o commento su facebook, è quanto mai attuale la parabola di un uomo che cerca disperatamente il modo di lottare contro il potere e si ritrova invece a dover fare i conti anche con la paura, il tradimento e la complicità di amici che lo vorrebbero zittire“.
“Volevo comprimere i 500 anni di differenza e far percepire allo spettatore odierno la prossimità dei personaggi e quindi della storia. È banale dire che oggi la storia di questo mugnaio ci riguarda, forse è ancora più importante far percepire il processo psichico di Menocchio che lo ha portato proprio contro se stesso“.