Quando le sale cinematografiche chiudono (nuovamente), per tutti noi che amiamo la settima arte forse non restano che i ricordi. Questo 2020, che mai dimenticheremo e che probabilmente ci ha cambiato per sempre, è stato anche l’anno di diverse ricorrenze legate al mondo del cinema. Penso al Centenario della nascita di due monumenti come il Maestro Federico Fellini (20 gennaio) e il grande Alberto Sordi (15 giugno). Allo stesso modo, penso al ventesimo anniversario della morte del Mattatore Vittorio Gassman (29 giugno). E oggi, 27 ottobre 2020, a trent’anni esatti dalla sua scomparsa, penso ad un altro grandissimo nome del nostro cinema: Ugo Tognazzi. Cremonese, tombeur de femmes (grande amico dello stesso Vittorio Gassman, ma anche di Paolo Villaggio, Marco Ferreri, Luciano Salce e Mario Monicelli), Tognazzi era un artista nell’animo che amava provocare, che impazziva per la cucina e il cibo, e che adorava il tennis. Celeberrimi i suoi banchetti e tornei nelle case di Velletri e Torvaianica, dove si celebrava il suo stile di vita. Pluripremiato, nella sua lunga carriera Tognazzi ha vinto il David di Donatello per L’Immorale (1967), La Califfa (1971) e Amici Miei (1976). Per La Tragedia Di Un Uomo Ridicolo (1981), a Festival del Cinema di Cannes vinse il premio come Miglior Interpretazione Maschile. E poi ancora tre volte la Grolla D’Oro – per I Mostri (1964), L’Immorale e Il Fischio Al Naso (1967) – e quattro Nastri D’Argento – per Una Storia Moderna – L’Ape Regina (1964), Io La Conoscevo Bene (1966), La Bambolona (1969) e La Tradegia Di Un Uomo Ridicolo (1981). Tutti riconoscimenti meritati in pellicole indimenticabili che hanno fatto entrare Tognazzi nel cuore del pubblico italiano che ancora oggi lo ricorda con nostalgia e profondo affetto. Ed è proprio analizzando il rapporto tra questo grande “Auttore” e la società che oggi vogliamo ricordarlo.
Intervista a Gabriele Rigola
Per riuscire nel nostro intento abbiamo avuto il grande piacere di intervistare Gabriele Rigola – ricercatore presso l’Università degli Studi di Genova, dove insegna Storia, Forme E Modelli Della Sceneggiatura Cinematografica e Critica Cinematografica – che nel 2018 per Kaplan ha pubblicato Una Storia Moderna: Ugo Tognazzi – Cinema, Cultura e Società Italiana, un volume che indaga la figura di Ugo Tognazzi. In particolare, il libro si concentra su alcuni e determinati aspetti dell’attività dell’attore, relazionandoli con uno sfondo sociale, cinematografico e culturale di riferimento con l’obiettivo di evidenziare “attraverso Ugo Tognazzi”, alcuni snodi decisivi degli anni presi in esame, studiando gli elementi più caratterizzanti di un complesso sistema mediale in stretto rapporto con le modifiche e gli assetti della cultura e della società.
Martedì 27 ottobre sono passati 30 anni dalla scomparsa di uno degli attori più rappresentativi della storia del cinema italiano, Ugo Tognazzi. Prima di tutto volevo chiederle che vuoto ha lasciato questo grande artista (“auttore”)?
Il vuoto che ha lasciato Tognazzi è significativo e importante. In questi trent’anni la recitazione nel cinema italiano è molto cambiata. Sono convinto che se ci fosse stato ancora, seppur anziano, si sarebbe adeguato a questi cambiamenti e sarebbe stato in grado di raccontare alcuni snodi importanti del nostro Paese come già aveva fatto nei decenni precedenti. Il vuoto di Tognazzi è nel suo lascito, nel suo modo di essere attore e allo stesso tempo di essere autore di se stesso: è stato un esempio che oggi manca. Sono tanti gli attori-simbolo di quella grande stagione del cinema italiano, da Mastroianni a Sordi, da Gassman a Manfredi. Ma Tognazzi era sicuramente una figura unica.
Nel secondo capitolo del suo libro ha indagato il ruolo di Tognazzi non solo nel cinema, ma anche nella società: un interprete che nei film è diventato “simbolo” di una certa italianità e che ha anche “fatto cultura”. Negli anni, attraverso tanti film e personaggi, che Italia ha saputo rappresentare Tognazzi? Che influenza ha avuto nel panorama socio-culturale dell’Italia dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta – tanto rispetto ai consumi quanto rispetto ai modelli relazionali e di genere?
Ha avuto un’influenza importante. Prima di tutto perchè è stato un attore enormemente trasversale: ha attraversato generi e modelli del cinema italiano (ma anche del cinema francese, pensiamo ad esempio ad un film come Il Vizietto) raccontando quelle che erano le trasformazioni socio-culturali dell’Italia in anni non casuali, dagli anni ’50 agli anni ’80, un periodo dove le cose sono cambiate in modo radicale. Tognazzi è stato per esempio in grado di raccontare i cambiamenti della sessualità e del genere maschile, del modo di consumare degli italiani. E non intendo solo consumi di prodotti, ma anche consumi culturali: essendo uno dei protagonisti chiave della Commedia All’Italiana è evidente che la sua figura, il suo corpo, sono stati degli elementi molto significativi nel racconto di questa modalità di cambiamento. Allo stesso tempo è stato, come dici tu, simbolo di una certa italianità. O meglio, di un certo modo di essere italiani.
Ovvero?
Una delle sue caratteristiche è stata proprio quella di essere completamente italiano, così simile, eppure così diverso, ad Alberto Sordi. Tognazzi ha smascherato i difetti degli italiani, soprattutto in relazione agli elementi “problematici”, e non mi riferisco al classico stereotipo dell’italiano medio. La problematicità che intendo io è un’altra: Tognazzi nei film interviene in tutti quei momenti in cui emergono le contraddizioni della nostra società e della nostra cultura. Penso ad esempio al tradimento, al rapporto femminile-maschile, alle questioni di genere, all’omosessualità, al consumismo sfrenato, all’incultura e così via.
Un capitolo lei lo ha dedicato anche al rapporto di Ugo Tognazzi con la critica e l’accoglienza del suo lavoro, dei suoi riverberi nella società e nella cultura del tempo. Come si può descrivere “L’Immagine” di Tognazzi?
La critica ha accolto molto bene la prima fase della carriera artistica e autoriale di Tognazzi, dai suoi esordi, i primi spettacoli, ai primi film degli anni Sessanta, in particolare da Il Federale (1961) in poi. Per quanto riguarda invece la sua immagine – che negli studi sul divismo si definisce “Star Persona” – possiamo dire che si è formata attraverso una serie di film, di situazioni, di elementi cinematografici e di elementi extra-cinematografici. Durante la mia ricerca mi sono per esempio soffermato sullo scherzo realizzato dalla rivista satirica “Il Male” (Tognazzi si fece fotografare in manette nei panni del «capo delle Brigate rosse», ndr.), un episodio che aveva a che fare non con la sua recitazione ma con la sua figura di uomo pubblico, e quindi la sua personalità. Altro aspetto importante da sottolineare è che Tognazzi stesso, per tutta la sua carriera, ha costruito la sua immagine, sfruttando e cavalcando la sua notorietà – era uno degli attori più bravi e pagati dello star system italiano – e alimentando degli stereotipi su di lui soprattutto in relazione a due temi: il cibo e le donne. Tra queste due stereotipizzazioni della sua persona divistica, fin troppo semplicistiche, Tognazzi sguazzava in pieno, e questo aspetto ha connotato la sua immagine all’interno della società.
C’è la storia professionale di Tognazzi, un grandissimo artista dello spettacolo, lo studio della sua recitazione, il suo rapporto con diversi cineasti. Le chiedo: com’era invece il Tognazzi regista?
Questo è un altro aspetto poco considerato, non esistono molte pubblicazioni sul Tognazzi regista. Rispetto all’attore, si tratta di un Tognazzi differente che però raccoglie ciò che aveva già sperimentato a livello attoriale. I temi che tratta, con mano intelligente, sono sempre all’avanguardia e scomodi, e in questo si sente la “lezione” del regista Marco Ferreri (pensate al film Il Fischio Al Naso, tratto dal testo di Buzzati, si tratta di un film decisamente “ferreriano”). Inoltre la sua sperimentazione come regista passa attraverso alcuni temi che lui mutua dalla letteratura, da romanzi e racconti un po’ particolari. Penso ad esempio ad uno dei suoi film più sconosciuti, I Viaggiatori Della Sera (1979, con Ornella Vanoni come co-protagonista al suo fianco), tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Simonetta: una storia che sfonda nella fantascienza, decisamente atipica per il cinema italiano.
Per dirla con le parole di Tognazzi – «L’attore? A volte mi sembra di farlo per hobby» – la sua vera grande passione era la cucina. In quest’epoca, dominata ai cooking show e dal food in generale, come si sarebbe trovato?
Avrebbe continuato a sottolineare la sua filosofia del cibo. Per Tognazzi cucinare – certe cose e in un certo modo – aveva soprattutto una dimensione conviviale e mai solitaria. Cucinare per lui è stato un vero esperimento di vita che l’ha accompagnato per molti anni. Ha sfruttato questa sua grande conoscenza culinaria per realizzare riviste (Nuova Cucina, mensile enogastronomico, ndr), rubriche gastronomiche (che per qualche anno ha tenuto su Playboy, versione italiana) e ricettari, e anche attraverso i film ha potuto proseguire questa sua divulgazione, fino ad un vero e proprio brand, oggi portato ancora avanti dai figli ed in particolare da Gian Marco Tognazzi con il progetto Tognazza.
Cosa significava per lui l’arte culinaria?
Tognazzi aveva una sua etica del cucinare, del discutere di cibo e del mangiare che aveva a che fare con la convivialità, con la condivisione, con lo stare insieme. Era ciò che già faceva sui set dei film, dove preparava da mangiare per tutti. L’elemento del cibo, che per lui aveva una dimensione esistenziale e collettiva, ha caratterizzato tantissimo la sua immagine pubblica.
Intervista di Giacomo Aricò