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Fino All’Ultimo Respiro, il manifesto di Jean-Luc Godard al cinema restaurato

È il film che ne fece un’icona. In coppia con Jean Seberg. La Cineteca di Bologna omaggia Jean-Paul Belmondo, scomparso lo scorso 6 settembre all’età di 88 anni, portando da lunedì 4 ottobre nelle sale italiane il restauro del film d’esordio di Jean-Luc Godard, À Bout De Souffle – Fino All’Ultimo Respiro nella versione restaurata in 4k da StudioCanal e CNC-Centre national du cinéma et de l’image animée, presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata della Cineteca di Bologna.

Il film

Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo), ladro e truffatore, mette a segno un colpo a Marsiglia, rubando un’automobile. Dopo aver lasciato la città, viene inseguito da un poliziotto per eccesso di velocità. Dopo aver cercato inutilmente di nascondersi e dopo aver accidentalmente rinvenuto una pistola nell’auto rubata, Michel uccide il poliziotto per non essere arrestato. Tornato a Parigi per affari con l’intenzione poi di fuggire in Italia, ritrova Patricia (Jean Seberg), una studentessa americana di cui si era innamorato e che vorrebbe portare con sé in Italia. Le rivela pian piano la sua condotta delinquenziale e le fa capire che la sogna al suo fianco anche come complice della sua vita spericolata, nella quale “il dolore è un compromesso”. Lei, pur ricambiando l’amore, cerca di allontanarsi da Michel perché lo ritiene troppo sfrenato. Michel, accompagnato da Patricia, continua la sua vita all’ultimo respiro, rubando soldi e auto, fumando e leggendo France Soir, da cui apprende di essere braccato dalla polizia, che è ormai sulle sue tracce. Michel cerca quindi di fuggire, insistendo perché la ragazza lo segua in Italia, ma Patricia, pur se inizialmente appare innamorata e propensa a seguirlo, alla fine decide di denunciarlo. Inseguito dalla polizia, Michel viene colpito da un proiettile e muore proprio sotto gli occhi della ragazza.

Era il 1960 quando uno dei registi che avrebbe scardinato la storia del cinema consegnava quello che sarebbe diventato un manifesto della Nouvelle Vague, Fino All’Ultimo Respiro: “non rivedere questo film (per la seconda o la centesima volta) – scrisse Jean-Claude Izzosarebbe, come è stato scritto allora, privarsi di emozioni tra le più belle e forti che il cinema abbia proposto in questi ultimi tempi”.

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Dal soggetto di Truffaut al film di Godard

““Un mese dopo l’uscita dei Quattrocento colpi, Godard mi ha chiesto di lasciargli la sceneggiatura di À Bout De Souffle per farla leggere a Georges de Beauregard. Era una storia che avevo scritto qualche anno prima”. È François Truffaut che ricorda come sia nato il primo lungometraggio di Godard, del quale risulta autore del soggetto mentre un altro amico, Chabrol, vi è accreditato come “consigliere tecnico”. Ma certamente i due nomi già affermati appaiono nei titoli di testa più come amichevole sostegno, e affermazione di una solidarietà di gruppo, che per il contributo realmente prestato. À Bout De Souffle non solo è, da cima a fondo, di Godard, ma è Godard: è ancor oggi il suo film più famoso, quello che ha avuto più successo se non il solo che veramente ne ha avuto, che è stato oggetto di un remake hollywoodiano (Breathless di Jim McBride, 1983), che è stato trasformato immediatamente in un romanzo (Claude Francolin, 1960), quello che anche i suoi detrattori considerano il suo (magari unico) capolavoro. Non ci si poteva attendere che Godard si limitasse a mettere in scena una storia scritta da altri, fosse pure un amico di cui condivideva gusti e predilezioni, anche se è vero che molti elementi del soggetto di Truffaut sono conservati con una singolare fedeltà. L’unico vistoso cambiamento narrativo è nel finale. Ma è il tono complessivo del film che risulta nuovo, così vivo e immediato da non dover nulla ad alcuna preesistente sceneggiatura”. (Tratto da Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, 2a ed. agg., Il Castoro, Milano 2002).

“Nel mio progetto il film finiva sul ragazzo che cammina in strada e la gente si girava al suo passaggio, sempre più numerosa, come si guarda una star dal momento che la sua fotografia occupava la prima pagina dei giornali della sera. Poteva sembrare abbastanza terribile. Come una cosa in sospeso. Lui ha scelto una fine violenta, perché era più triste di me. Quando ha fatto il film era veramente disperato. Aveva bisogno di filmare la morte, aveva bisogno di quella fine. Di tutti i film di Jean-Luc À Bout De Souffle è il mio preferito. E il più triste. È un film lacerante. C’è dentro un’infelicità profonda. Il miracolo del film è che è stato fatto in un momento della vita di un uomo in cui normalmente non si fa un film. Non si fa un film quando si è in uno stato di indigenza, nella tristezza”. (Tratto da Francois Truffaut, in Jean Collet, Jean-Luc Godard. Seghers, Parigi 1963).

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“Parigi 1959, il centro del mondo. Godard dirige, Truffaut scrive. Belmondo/Poiccard, piccolo omicida, corre a perdifiato per sfuggire alla polizia e a cinquant’anni di cinema di papà; Jean Seberg vende l’“Herald Tribune” sugli Champs Elysées, s’innamora, lo tradisce: ‘déguelasse’. Poco budget, molto amore per il B-movie americano, sguardi in macchina, jump-cuts, l’euforizzante sensazione che tutto sta per ricominciare. Irripetibile, e forever young. “Fino All’Ultimo Respiro appartiene, per sua natura, al genere di film in cui tutto è permesso. Per di più questo era il genere di film in cui tutto era permesso, era nella sua natura. Qualsiasi cosa faccia la gente, tutto poteva essere inserito nel film. È proprio questa l’idea da cui ero partito. Pensavo: c’è già stato Bresson, è appena uscito Hiroshima, un certo tipo di cinema si è appena concluso, forse è finito, allora mettiamo il punto finale, facciamo vedere che tutto è permesso. Quello che volevo era partire da una storia convenzionale e rifare, ma diversamente, tutto il cinema che era già stato fatto”. (Jean-Luc Godard)

“Prima e dopo” Godard

“Se all’inizio degli anni Sessanta si è potuto dividere la storia del cinema in “prima e dopo” Godard, dipende dal fatto che la rivoluzione godardiana, ancora prima di essere una rivoluzione linguistica, o estetica, prende l’avvio da una nuova pratica del cinema. Attraverso una radicale rimessa in questione – o, meglio, attraverso una messa in crisi – di tutte le regole e di tutte le consuetudini tecniche di ciò che era divenuto, col passar del tempo, il cinema. Reinventare il cinema, per Godard, non vuol dire raccontare altre storie, e neanche raccontarle in un altro modo, ma in primo luogo significa ritornare all’origine (mito della prima volta e di un’età perduta destinato ad ossessionare il cinema, dal momento in cui, con la Nouvelle Vague, è destinato a prendere coscienza di se stesso e di ciò che in lui finisce), significa ripartire dai ferri del mestiere, dallo strumento-cinema, per vedere che cosa ce ne si possa ancora fare, come usarlo in modo differente, perché sputi il rospo e possa partorire possibilità nuove, stanandolo dai suoi ultimi ridotti. E non si tratta dunque tanto di fare un nuovo cinema, quanto di inventare un nuovo modo di fare i film, e che sia anche meno caro: il fattore produzione è importante“.

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Per un nuovo cinema, nuove tecniche; per nuove tecniche, un nuovo cinema. Se Godard è stato un inventore di forme, è perché è stato, prima di tutto, un inventore di metodi. La sua rivoluzione consiste nell’aver forgiato e rimesso costantemente in causa, nel corso di un’ininterrotta evoluzione, un nuovo metodo di fabbricazione delle immagini e dei suoni. Lo sfruttamento e la sperimentazione di nuove tecniche (all’epoca di Fino all’ultimo respiro la Cameflex e la camera a mano, un nuovo sistema di illuminazione dall’alto, non effettistica, e che permetteva una maggior libertà di messa in scena, un lavoro sulle emulsioni in bianco e nero), come del resto la rimessa in discussione delle abitudini tecniche tradizionali e della successione delle operazioni di scrittura, sia in fase di ripresa che di montaggio, sono ora i fattori che condizionano e rendono possibile l’apparizione di nuove forme”. (Tratto da Marc Chevrie, Questioni di metodo, in Jean-Luc Godard, Centre Culturel français de Turin, Torino 1990).

À Bout De Souffle è allo stesso tempo un saggio di estetica della nascente Nouvelle Vague, un gesto cinéphile di amore per il cinema classico e uno dei tasselli più importanti del rinnovamento linguistico del cinema degli anni Sessanta. Con esso ha inizio il percorso radicale del regista nella trasgressione sistematica delle regole base della narrazione cinematografica: dal montaggio (la cui continuità logica è rotta da infrazioni all’epoca vistose, come i raccordi fuori asse e le ellissi cronologiche in una stessa scena) alla giustezza dell’inquadratura (sono frequenti gli sguardi in macchina, scene dove chi parla o il suo controcampo sono decentrati rispetto all’asse di visione, ecc.), il film effettua una serie di scelte stilistiche che permettono al regista un recupero della casualità e dei tempi morti in funzione espressiva che ha poche pietre di paragone. Il gioco colto e provocatorio della citazione di codici e stilemi del cinema classico (dall’imitazione di divi come Bogart, intravisti su poster di film, al recupero della chiusura a iris come raccordo), insieme all’atteggiamento disincantato e scimmiottante dei personaggi che riflette lo sguardo anarcoide del regista-autore, cui va ad aggiungersi la suggestione del recupero della norma neorealista delle riprese effettuate in strada, fanno da griglia espressiva a un’accattivante non-storia fondata sull’incontenibile umoralità dell’amore, giocata in un’atmosfera che occhieggia al film poliziesco di serie B americano (come testimonia la dedica alla casa di produzione statunitense Monogram)”.

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“La “scorrettezza” dei personaggi nelle loro ambigue scelte di vita e nell’assoluta mancanza di lealtà reciproca si riflette con irriverenza nella sconnessione e apparente spontaneità dei loro lunghi dialoghi e nei gesti incoerenti, che sottraggono importanza alla trama narrativa e creano una tensione di racconto situazionale, in gran parte basata sulla forza espressiva di Jean-Paul Belmondo e di Jean Seberg e sulla messa in gioco dei loro tic e delle loro manie. Anche il finale, drammatico e al contempo così calcato da diventare ironico, con l’esplicita allusione all’incomunicabilità e all’estraneità tra i due amanti, che va ben oltre il problema dell’incomprensione linguistica, è un segno del tempo (si pensi al finale, perfettamente coevo, di La Dolce Vita). Altro aspetto sostanziale della rivoluzione intentata dal film fu quello della scommessa produttiva: girato a bassissimo costo, in diversi casi senza l’autorizzazione per le riprese in strada e in tempi ridottissimi, il film divenne di fatto una denuncia politica della retorica del cinema come gigantesca e irrinunciabile gabbia industriale. La novità nell’uso prepotente della colonna musicale, la nitida e movimentata fotografia di Raoul Coutard e le continue trovate di regia di Godard fruttarono al film immediati riconoscimenti da parte della giovane critica militante, contro cui poco poterono le vaghe accuse di anarchismo della critica ufficiale più paludata”. (Tratto da Serafino Murri, À bout de souffle, Enciclopedia del cinema Treccani. I film, 2004).

L’improvvisazione 

Io improvviso, senza dubbio, ma con materiali che ho accumulato da tanto tempo. Nel corso degli anni si raccolgono un sacco di cose, e si mettono tutte insieme in ciò che si fa. I miei primi cortometraggi erano molto ben preparati e girati molto rapidamente. Fino All’Ultimo Respiro è iniziato così. Avevo scritto la prima scena (Jean Seberg sugli Champs-Elysées) e, per il resto, avevo moltissimi appunti che corrispondevano a ogni scena. Ho pensato: è spaventoso! Ho fermato tutto. Poi ho riflettuto: in un giorno, se ci sappiamo fare, dobbiamo riuscire a girare una decina di inquadrature. Solo che invece di trovare l’idea con molto anticipo, la troverò appena un attimo prima. Quando si sa dove andare dovrebbe essere possibile. Non è improvvisazione, è messa a punto all’ultimo minuto. È evidente che bisogna avere e conservare la visione d’insieme, la si può modificare nel corso di un certo lasso di tempo, ma dal momento in cui si comincia a girare bisognacambiarla il meno possibile, altrimenti è la fine. Ho letto su “Sight and Sound” che faccio un’improvvisazione in stile Actor’s Studio, dove si dice agli attori: adesso tu sei questo tizio, quindi comportati di conseguenza. Ma Belmondo non ha mai inventato i suoi dialoghi. Erano scritti, solo che gli attori non li studiavano, il film è stato girato senza sonoro e io suggerivo le battute“. (Jean-Luc Godard)

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Jean e Jean-Paul

“Godard non sembra essersi preoccupato di costruire dei personaggi ma di svelare la natura profonda dei due individui che aveva davanti alla macchina da presa. Non ci chiediamo cosa Michel Poiccard debba a Jean-Paul Belmondo o cosa Patricia debba a Jean Seberg ma esattamente il contrario. […] Prima delle riprese di Fino all’ultimo respiro la star era Jean. All’uscita del film fu Belmondo… Poi è la coppia ad essere diventata un mito“. (Tratto da Jean-Lou AlexandreUne actrice sur la Vague: Jean Seberg, in “CinémAction”, n. 104, 2002).

“Il mio film è un documentario su Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo”.

Jean-Luc Godard

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