Ispirato al film messicano campione d’incassi Nosotros Los Nobles di Gary Alazraki, arriva domani al cinema Belli di Papà, la commedia diretta da Guido Chiesa con Diego Abatantuono, Matilde Gioli, Andrea Pisani, Francesco Di Raimondo, Marco Zingaro, Antonio Catania e per la prima volta sul grande schermo Francesco Facchinetti.
Un padre può mantenere cento figli, ma tre figli riuscirebbero a mantenere un padre? Vincenzo (Diego Abatantuono) è un imprenditore di successo, affiancato dal suo socio Giovanni (Antonio Catania). Vedovo, rimasto improvvisamente solo, deve badare a tre figli ventenni, Matteo (Andrea Pisani), Chiara (Matilde Gioli) e Andrea (Francesco Di Raimondo), che rappresentano per lui un vero e proprio cruccio. I ragazzi vivono, infatti, una vita piena di agi, ma senza senso e soprattutto ignari di qualsiasi responsabilità, con una quotidianità leggera, lontana dai doveri e dalla voglia di guadagnarsi la vita.
Vincenzo tenta perciò di riportarli alla realtà: una messinscena con cui fa credere ai figli che l’azienda di famiglia stia fallendo per bancarotta fraudolenta. Sono perciò costretti ad un’improvvisa fuga degna di veri latitanti. I quattro si rifugiano in una vecchia e ormai malconcia casa di famiglia in Puglia. Per sopravvivere, Chiara, Matteo e Andrea dovranno cominciare a fare qualcosa che non hanno mai fatto prima: lavorare.
Vi proponiamo di seguito un estratto dell’intervista rilasciata da Guido Chiesa che, con questo film, ha diretto la sua prima commedia.
Che film è Belli di Papà?
Belli di Papà ha l’ambizione di essere un film divertente e profondo, che analizza, da un certo punto di vista, un dibattito generazionale, in cui non si prende le parti di nessuno, ma si rappresenta il contesto, le difficoltà, i problemi, le vittorie e gli errori di entrambi, genitori e figli (…). Il tutto naturalmente è raccontato con i toni della commedia, non solo per i meccanismi, ma anche per la storia, i personaggi e l’ambientazione, nel solco di una certa commedia italiana capace di far divertire, ma anche riflettere, emozionare, persino commuovere. Oppure, per certi versi, se si guarda al mondo anglosassone, a me ha fatto venire in mente titoli recenti come Little Miss Sunshine o Ti Spaccio la Famiglia. Ogni tanto mi sembrava di stare girando una sorta di farsa morale in una provincia pugliese che somigliava al Texas…
Come mai avete scelto di girare a Taranto e dintorni?
Sapevamo di voler girare al Sud, in una città “problematica”, ma non da cartolina. Soprattutto senza gli stereotipi, anche cinematografici, che si portano dietro nel bene o nel male città come Napoli o Palermo. Taranto e la sua provincia sono uno scenario ideale perché contengono al loro interno tutte le dinamiche che compongono il dramma ma anche il fascino del Meridione: pensiamo alla questione ILVA o al degrado della Città Vecchia – in cui si trova la casa natale di Vincenzo; oppure alle bellezze naturali e al dinamismo di tanti giovani – imprenditori operatori della cultura e del turismo – che cercano di smuovere l’immobilismo cronico di questa parte d’Italia (ragione per cui, ad esempio, un film del genere vent’anni fa si sarebbe potuto ambientare a Bari o Lecce, città che poi negli anni hanno subito una trasformazione, anche urbanistica, decisamente significativa). Non era nostra intenzione né fare un film sociologico, tanto meno di denuncia dei problemi del Sud: c’è chi sa farli molto meglio e con più competenza di noi. Ci interessava invece ambientare la storia in quello che sembra un contesto degradato, per poi invece scoprire al suo interno una umanità varia, ricca di sfumature, con idee e preoccupazioni tutt’altro che scontate.
Oltre che a Taranto, avete girato anche a Manduria e San Marzano di San Giuseppe, ma soprattutto ad Avetrana…
Avetrana ha un aspetto urbanistico particolare rispetto ad altri piccoli centri del Sud che diventano subito folkloristici: ricorda un po’ il Texas, con case basse e bianche, circondato da ulivi e cave, con il silenzio solcato solo dal vento e dalle cicale. È un paese modesto, ma non degradato, con un centro storico piccolo e un’enorme “periferia”. È una sorta di non-luogo, perfetto per la nostra storia, che avrebbe sofferto se fosse stata imprigionata in un contesto urbanistico troppo “forte”. Invece, così, è collocata in una sorta di indefinita provincia. Un ambiente sociale e umano con cui i nostri tre protagonisti si scontrano – cresciuti non per colpa loro nella bambagia del Nord ricco – ma anche che permette loro di maturare, di scoprire un modo veramente diverso di affrontare la vita. Tanto che, alla fine, decidono di rimanere a vivere lì. Infine, anche se in maniera secondaria, la scelta è caduta su Avetrana perché ci sembrava bello e giusto offrire ai suoi abitanti un’occasione di notorietà positiva: non è possibile che si parli di un luogo solo in relazione a un delitto!
Che tipo di destinatari ideali ha secondo lei la vostra commedia?
E’ un film diretto a un pubblico ampio: appassionati di commedia, ma anche coloro che vanno al cinema per trovare motivi di riflessione. È diretto ovviamente a un pubblico di genitori e figli, e io mi auguro che per una volta possano veramente andare insieme al cinema. E magari tornare a casa a discuterne! A ben vedere, è soprattutto un film che cerca di stare dalla parte dei giovani, non per adularli o sfruttarli commercialmente, ma perché, pur non essendo realizzato da “giovani”, cerca di stare dalla loro parte, di non giudicarli, soprattutto di non fare moralismi. Per carità, i problemi dei giovani esistono, bisogna parlarne, discuterne, ipotizzare soluzioni, ma oltre a detestare le categorie sociologiche (che cosa vuol dire “i giovani”? Sono tutti uguali?) penso che non serve a nulla continuare a dirgli “non dovete fare questo o quello” o “dovete essere così o cosà”: che utilità ha sbattergli in faccia frasi che hanno come unico, profondo messaggio “non siete come dovreste essere, siete sbagliati”? Chi sarebbe stato d’accordo – quando avevamo quindici, vent’anni – con chi parlava di noi come dei viziati, dei fannulloni, degli egoisti o peggio ancora dei degenerati? E poi, se i “giovani” sbagliano – ammesso e non concesso che lo facciano – è davvero tutta responsabilità loro o non dovremmo, prima di giudicare, farci un bell’esame di coscienza? Che modelli hanno avuto, in casa prima di tutto?
Che bilancio può fare di questa esperienza?
È stato il mio film più “leggero”, mi ha persino fatto ri-innamorare del fare-cinema, anche grazie al sostegno e alla libertà di cui ho goduto da parte dei produttori. Al di là del mio interesse personale, spero che sia un film che possa aiutare ad allargare i confini delle “possibili” commedie da fare, sia dal punto di vista della storia che dello stile e della scrittura. Quando gli operatori cinematografici sentono parlare di “commedia intelligente”, non nascondono un certo scetticismo. Eppure negli ultimi anni titoli come quelli di Sibilia, Falcone, Pif o Edoardo Leo, tanto per citarne alcuni, dimostrano che un pubblico nuovo c’è. Si tratta commedie divertenti, ben fatte e ben scritte, che affrontano temi d’interesse collettivo e non sono soltanto occasioni per far ridere: nulla contro quel tipo di film, ma non possono esistere solo quelli. Il mercato, ogni mercato sano, ha bisogno di varietà e originalità, non di omologazione e appiattimento.