Diretto nel 2009 da Pedro González-Rubio, arriva il 25 maggio al cinema Alamar, un intenso film che narra l’emozionante viaggio di un padre e un figlio alla scoperta di se stessi e della natura incontaminata in uno dei più famosi paradisi terrestri marini, Banco Chinchorro.
In un atollo dal mare incontaminato vive un vecchio pescatore. Si chiama Matraca (Néstor Marín “Matraca”) ed esercita la pesca con metodi antichi nel Banco Chinchorro, un’estesa barriera corallina nei mari del Messico. Un giorno suo figlio Jorge (Jorge Machado) lo raggiunge con il nipotino, Natan (Natan Machado Palombini), nella sua piccola palafitta. Natan ha cinque anni e vive a Roma con sua mamma, Roberta (Roberta Palombini). Prima che il piccolo inizi ad andare a scuola, Jorge vuole fargli conoscere il suo mondo.
Giunti a Banco Chinchorro, Natan e Jorge accompagnano ogni giorno il nonno a pescare. Natan scopre una profonda connessione con la natura, imparando a perlustrare l’affascinante mondo che si cela sotto la superficie marina. Fa anche amicizia con un uccello marino, che chiama Blanquita. Quando Blanquita un giorno scompare Natan capisce che è giunto il momento di salutarsi. Ma quel che ha imparato in mare in questo viaggio ancestrale rimarrà con lui per sempre.
Vi proponiamo ora un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Pedro González-Rubio.
Come hai iniziato a interessarti ai temi del film?
Volevo esplorare la relazione d’amore tra un padre e un figlio e allo stesso tempo la relazione di armonia tra uomo e natura. Volevo raccontare una storia che evocasse il ritorno alle origini dell’umanità e addentrarmi tra le attività basilari della vita, con la pesca che è proprio una delle attività più ancestrali. Ho deciso di usare Banco Chinchorro per via dei suoi scenari minimali. Questa semplicità mi permetteva di focalizzare la mia attenzione sulle relazioni tra i personaggi.
Qual è l’importanza dei luoghi in cui hai ambientato il tuo film? La presenza della barriera corallina non sembra solo uno sfondo per l’incontro tra Jorge e Natan ma un vero e proprio personaggio che entra in relazione con loro.
Fin dall’inizio volevo esplorare la fragilità delle cose belle che ci circondano. Scegliere di girare un film all’interno di un ambiente così delicato e farlo dal punto di vista di un bambino mi permetteva di costruire un’immagine molto potente. L’idea di scegliere la barriera mi è venuta perché mi ero accorto di quanto la costa caraibica del Messico avesse cominciato ad essere invasa dal turismo di massa, che distrugge ogni cosa sul suo cammino: dai modi di vita dei pescatori all’equilibrio dell’ecosistema. Tempo fa Playa del Carmen somigliava ai luoghi dove abbiamo girato Alamar, ma ormai le mangrovie sono scomparse. Al loro posto ci sono discoteche sul mare, bar e alberghi con tutte le tipiche comodità cittadine.
Che significato assume Banco Chinchorro in Alamar?
Ho vissuto sette anni a Playa del Carmen, sulla costa caraibica, dove avevo girato il mio primo film, Toro Negro, cinque anni fa. In quel lavoro avevo approfondito gli aspetti più intimi della vita del protagonista, un torero con una storia molto travagliata e difficile. Con Alamar invece volevo fare qualcosa di diverso, un film più solare, che potesse suggerire un possibile equilibrio, come tra lo Yin e lo Yang. Alamar è di nuovo la storia di una famiglia, ma con una prospettiva diversa. Volevo girare una storia di amore puro e incondizionato. In un primo momento, avevo immaginato la vicenda di un uomo che avrebbe trascorso i suoi ultimi giorni nel luogo in cui era nato. Quando ho incontrato Jorge (padre), mi ha subito affascinato, ma mi son detto che era troppo giovane per interpretare la parte di un uomo alla fine della sua vita. Ben presto, però, ho capito perché volevo filmare in quel luogo preciso e con quel preciso personaggio: potevo raccontare una storia di amore per la natura e sulla natura che portiamo dentro di noi. E poi ho incontrato Natan, il figlio di Jorge. A quel punto ho capito che si trattava della possibilità di raccontare la vita che continua.
Il film sembra così reale che viene da chiedersi se ti sei ispirato ad una storia vera …
No, perché in realtà Jorge è una guida turistica e non ha mai pescato l’aragosta. D’altra parte, nemmeno nel film pesca realmente le aragoste… Questa è la magia del cinema! Ma allo stesso tempo, se si guarda da vicino, la linea narrativa è molto tenue e si concentra sulle piccole cose del quotidiano. Ho collocato i personaggi in situazione e poi hanno agito secondo il proprio carattere. Erano molto liberi. Durante la traversata in battello fino all’isola, per esempio, Jorge e Natan stavano davvero male, come noi tutti, del resto.
Questa scelta di una finzione così vicina al documentario può essere un po’ destabilizzante per lo spettatore.
Lo è per lo spettatore che tiene le distanze. Ma se si lascia trasportare dalla storia non si chiede più nemmeno se si tratta di una finzione o un documentario. In realtà, preferirei fare a meno delle definizioni. D’altronde, il film è stato presentato in concorso al festival Cinéma du Réel come documentario e al Festival del Cinema di Parigi come finzione. La cosa migliore è vederlo semplicemente come un film, un’esperienza cinematografica.