Il Festival Internazionale del Film di Roma questa sera renderà omaggio a Paolo Cavara, uno dei registi italiani più illuminati di sempre. Al Teatro Studio Gianni Borgna verrà infatti proiettato, in versione restaurata, L’Occchio Selvaggio, probabilmente il film più importante di Cavara che scrisse la sceneggiatura insieme a Tonino Guerra e Alberto Moravia. Una pellicola che vide la luce per la prima volta nel 1967 ma che assume sempre più valore ogni giorno che passa. Un film che ha anticipato i tempi, che ha colto prima di tutti l’orientamento di una società che ricerca il successo, disposta a tutto pur di raggiungerlo. Per ricordare Paolo Cavara e questo capolavoro, abbiamo intervistato il critico di cinema e scrittore Fabrizio Fogliato, autore di Paolo Cavara – Gli Occhi che Raccontano il Mondo (edizioni Il Foglio, collana Cinema), un volume pubblicato solo pochi mesi fa che indaga sapientemente tutta l’opera di Cavara, arricchito anche da un’intervista a Pietro Cavara, il figlio del regista, che stasera interverrà a Roma prima della proiezione de L’Occhio Selvaggio.
Per chi ancora non lo conoscesse, vuole ricordarci chi era Paolo Cavara regista?
Paolo Cavara, prematuramente scomparso nell’estate del 1982 all’età di soli 56 anni, è stato un regista eclettico, in grado di attraversare i “generi” mantenendo uno stile ed una forte impronta autoriale. Realizzatore di un cinema votato ad un solido umanesimo e, improntato sul tema del dubbio e della ricerca, è artefice di una filmografia formalmente giuocata sul taglio documentario della ripresa (caso presso ché unico in Italia) e punto d’origine del suo cinema con la controversa partecipazione a Mondo Cane (1962).
Torna al Festival di Roma, in versione restaurata, L’Occhio Selvaggio, che lei considera la sua opera più importante. Perché, citando parole sue, questo film è ancora “attuale ed allarmante”? Il raggiungimento del successo è ancor di più il solo scopo dell’Uomo moderno?
Non è solo una questione di obiettivi primari, ma è il modo in cui questo vengono raggiunti. L’Occhio Selvaggio racconta le vicende di un personaggio odioso e sgradevole, disposto a mentire oltre l’evidenza pur di raggiungere i suoi scopi, ma al contempo, il regista ne fa un personaggio affascinante e per nulla respingente delineando una sorta di rappresentazione per immagini della “seduzione del Male”. Nel cogliere l’aspetto più sotterraneo e pericoloso della “società delle immagini”, quindi, Paolo Cavara si dimostra realmente un profeta, e nel non concedere spazio all’ottimismo un autore importante e poco allineato alla mentalità e alla cultura italiana. La scena de L’Occhio Selvaggio con l’attesa dell’attentato diurno, di fronte all’hotel sorvegliato dagli americani è emblematica del meccanismo di fascinazione cinematografico: l’attesa dell’evento (che mai si verificherà), il correre della pellicola, la folla/pubblico in trepidante attesa del tragico.
Paolo, il protagonista autobiografico del film, è un personaggio tanto sgradevole quanto realistico. Cavara però non voleva criticare tanto il personaggio quanto la società che lo ha generato. Quali sono le principali colpe di questa società?
Una società che per un breve giro sulla giostra del benessere (il boom economico) ha gettato alle ortiche, in un tempo drammaticamente breve, tutti i valori che le hanno premesso con forza “miracolistica” (questa sì) di uscire dal terrificante dopoguerra e di restaurare un paese allo sbando e in rovina. Paolo, il protagonista, è un prodotto come lo è il suo film, ed egli è consapevole di esserlo e non vuole sottrarsi al ruolo che ha scelto, perché la moneta di scambio è rappresentata dalla fama, dalla gloria e dal successo personale ed economico. Paolo, quindi, è al contempo vittima e carnefice, forse più vittima che carnefice, visto che si presta come strumento di organizzazione dell’immaginario collettivo. Nel mondo del protagonista del film esistono solo un egoismo e un individualismo tanto esasperato quanto grottesco, artatamente perseguiti come unico strumento per il raggiungimento del successo a tutti i costi. Il regista vede in prospettiva una società che ha rinunciato al talento, alla fatica e allo studio per abbandonarsi ad un ossessione collettiva fatta di apparenze e immagini.
Menzogna e realtà, ambiguità dello sguardo: qual è l’Occhio Selvaggio descritto da Cavara?
Quello che si trova a metà strada e che è incardinato sul concetto di dubbio. Con questo film il regista non esprime giudizi, bensì interroga se stesso e lo spettatore su quali siano i limiti etici e morali che separano la ripresa della realtà e la sua manipolazione.
Nell’epilogo, come spiega nel libro, “attraverso un vertiginoso e affascinante gioco di specchi, il regista mette in scena tre occhi selvaggi”. Quali sono?
Quello del regista “interno” al film, quello del regista del film e quello dello spettatore. L’occhio selvaggio, infatti, è un film che esplicita al meglio quei contenuti latenti (superiori a quelli manifesti) che ogni spettatore assorbe di fronte ad un prodotto cinematografico. È un film che non da risposte, ma che pone interrogativi universali e sempre attuali, e lo fa con una forza rappresentativa senza precedenti, evitando ogni compromesso ed edulcorazione, e affondando i propri artigli nel punto nevralgico della società delle apparenze. L’occhio selvaggio è quindi un film seminale tanto per la comprensione dei cambiamenti della società italiana quanto per l’enucleazione dei meccanismi della ripresa e di quelli “inconsci” dello sguardo. Un atto di coraggio e di intelligenza artistica che ha pochi precedenti nella nostra cinematografia, e che merita, assieme al nome del suo regista di essere sollevato dall’oblio in cui per troppo tempo è stato inopinatamente relegato.
Altro tema del film, per produrre una realtà mistificata ed emozionante (contrariamente alla verità che è noiosa), è la cosificazione delle persone. Ci può spiegare questo aspetto?
Ne L’occhio selvaggio, Paolo Cavara ha come obiettivo quello di dimostrare come l’ammiccamento e la seduzione delle immagini sullo spettatore, parallelamente al trattamento di temi scabrosi, trasfigurino il contenuto delle riprese in un dato di fatto, in una ripresa oggettiva di ciò che accade davanti agli occhi di chi la riprende e, di conseguenza, come lo spettatore non possa che percepire come “vero” ciò che in realtà è “falso”, artefatto e ricostruito. Chi, come il protagonista del film, agisce seguendo queste coordinate ha bisogno solo di oggetti e cose (che non pensino e subiscano, passivamente, ogni azione e ogni parola) e non di persone, le quali, quando presenti e necessarie, devono essere ridotte a puro armamentario filmico e da set.
2014, piena crisi. Eppure l’Italia è, sempre di più, una società dell’apparenza. Concorda?
E’ un problema di identità. Un società come la nostra che non si riconosce né in modo unitario né identitario non può che cedere al culto dell’apparenza per mascherare il vuoto pneumatico in cui sì è (auto) sprofondata. Paradossalmente è una società di vittime più che di carnefici, perché è la sua cronica mancanza di cultura che non le ha permesso di ritrovarsi stretta attorno ad una identità forte in grado di permetterle di esercitare (tanto in basso quanto in alto) un senso critico verso le negatività che l’attraversano.
Intervista di Giacomo Aricò
Ringraziamo Pietro Cavara per la gentile concessione, in ESCLUSIVA, delle due immagini appartenenti al suo Archivio privato.
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