Dopo aver sapientemente rispolverato il cinema di Paolo Cavara, il critico cinematografico e scrittore Fabrizio Fogliato porta ora in libreria Italia: Ultimo Atto – L’Altro Cinema Italiano, Volume 1, edito da Il Foglio Letterario. Il volume, richiestissimo e già in prima ristampa, intraprende un viaggio nella storia del cinema nostrano che parte da Alessandro Blasetti ed arriva a Massimo Pirri. Un vero e proprio manuale, puntuale e approfondito, che indaga l’altro cinema italiano, quello dimenticato, nascosto, sottaciuto, bandito e cancellato che qui diventa cartina di tornasole del “Paese Reale”. Per presentarvi questa opera, imperdibile per tutti i veri appassionati di cinema, abbiamo deciso di intervistare l’autore, Fabrizio Fogliato.
Italia Ultimo Atto, perché la scelta di raccontare, come scrive Davide Pulici nella prefazione, questa “contro storia del cinema italiano”?
La prima risposta che mi viene in mente è: perché no? La seconda, invece, è frutto di un ragionamento e di molte domande: se il cinema (quello italiano) è lo specchio deformato della realtà, possibile che il racconto di questa sia stato ad appannaggio solo dei grandi nomi? Perché i nostri Autori riuscivano a continuare a fare i loro film senza incontrare grandi successi commerciali? Dove li trovavano i soldi? L’industria cinematografica italiana ha prodotto solo opere commerciali? Perché c’è un cinema italiano (spesso sconosciuto, talvolta censurato o dimenticato, altre volte bandito e rimosso) che mai nessuno ha approfondito e indagato? Perché è finito nell’oblio? Chiaramente dietro c’è una ricerca durata anni (il progetto in due volumi nasce nel 2008) in cui è emerso che più di ogni altro è stato il cinema – quello popolare delle seconde e terze visioni e persino delle sale parrocchiali – il vero metronomo della storia e della società italiana. Un mezzo attraverso cui, silenziosamente e con tacito assenso, lo spettatore ha vissuto sullo schermo il suo trapasso da cittadino a spettatore.
Lei come definisce questo suo volume?
Questo volume ha l’ambizione di voler rivelare un’Italia nascosta, che è impressa nella retina di chi l’ha ritrovata sullo schermo perché certo cinema l’ha saputa raccontare in maniera popolare, diretta e, persino, sfacciata. L’intera storia del cinema italiano, infatti, è un romanzo d’appendice – rigorosamente a puntate e tormentato – che, a quella ufficiale affianca una “contro-storia clandestina” che non è definita né dalla critica né dagli storici, bensì dal punto di vista dal “basso” dello spettatore con il suo carico di ansie, paure, speranze e illusioni proiettate sul grande schermo.
Il suo è un viaggio nel cinema nostrano che parte da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri. Perché ha scelto questi due registi come simbolici punti di partenza e di arrivo?
Perché Blasetti con Sole (1928) è l’uomo della rinascita del cinema italiano dopo il buco nero del primo dopoguerra, mentre Massimo Pirri è l’uomo che ha vissuto il suo cinema da “profeta” ed ha visto, attraverso la celluloide, il piano inclinato su cui l’Italia sarebbe scivolata. Due registi ambigui (anche ideologicamente) e pertanto irrisolti, interessanti e comunque mai banali. Due personalità poliedriche e irriverenti, refrattarie al condizionamento e, a loro modo, diversamente rivoluzionarie.
Cosa ha trovato lungo il percorso?
Il libro si snoda lungo un percorso irregolare e anti-cronologico, seguendo, come un romanzo, una lunga strada tortuosa e irta di ostacoli e imprevisti. Un’Odissea di celluloide fatta di film incompiuti, di opere perdute e di aneddoti leggendari, in cui l’unico riferimento possibile può solo essere quello bifronte del “cittadino-spettatore”. In mezzo c’è di tutto ovviamente – un tutto cinematografico che si intreccia con la Storia, la società, il costume, la politica e la cronaca nera e rosa. E così che, nel libro, una dopo l’altra si susseguono storia reali, fittizie, talvolta sospese tra il sogno e la memoria, altre incredibilmente verosimili nella loro “follia” che occupano le pagine meno note e più intriganti dell’industria cinematografica italiana: il rapporto tra cinema e treno negli anni ‘30, gli affreschi in nero della borghesia italiana degli anni ‘50, le spigolature e le asperità dei meno conosciti (ma più interessanti) melodrammi di Raffaello Matarazzo, le conseguenze della sperequazione indotta dal miracolo economico dei “meravigliosi” (come da stereotipo) anni ‘60, la vicenda produttiva di Milano Nera, film di Pier Paolo Pasolini sui teddy boys meneghini, mai realizzato è rimasto sulla carta, il cinema del biennio 1968-1969 che del sogno racconta solo le scorie e le disillusioni nonché la sconfitta della “rivoluzione”, e il cinema indipendente che ha raccontato le inquietudini del benessere e l’esplodere della strategia della tensione. Perché è in questi film che si ritrova il senso di un’identità nazionale mancata, di una “grande bellezza” incompiuta, di desideri andati perduti prima ancora del loro concretizzarsi, e dei tratti antropologici (nel bene e nel male) della società italiana.
Dal cinema del Ventennio alla Prima Repubblica, dal trionfo del cinema femminile al Boom Economico, dalla rivoluzione sessantottina alle pallottole criminali: come ha scelto i film di riferimento? Quale ci vuole ricordare come gli essenziali?
Con un’estenuante e complesso lavoro di selezione, perché è chiaro che il numero film visti, rispetto a quelli raccontati, è di almeno il doppio, così come la scelta dei film è finalizzata a sostenere la tesi di fondo su cui il libro è costruito, tesi che è sintetizzata nel titolo stesso dell’opera. In questo percorso alcuni passaggi imprescindibili sono quelli che riguardano il tema della spiaggia – con La Spiaggia (1954) e L’Ombrellone (1965) di Dino Risi; la vicenda produttiva del “pasoliniano” Milano Nera (1962) di Rocco & Serpi; l’analisi e la storicizzazione del cinema del biennio del 1968-1969 e chiaramente il lungo saggio dedicato alla figura e all’opera di Massimo Pirri.
Nel suo libro ci sono decine e decine di titoli che la maggior parte delle persone non ricorda o che di cui non conosce nemmeno l’esistenza. Quanto è importante ricordare questo cinema “rimosso, nascosto, sottaciuto, bandito”? Perché questo cinema non è mai stato raccontato?
Per almeno tre motivi: Il primo, quello più evidente, riguarda il fatto che si tratta di film non belli, talvolta persino non riusciti ma che diventano interessanti nel momento in cui li si contestualizza e li si collega ad altre opere. Il secondo, quello antropologico, è che L’Italia è un paese senza memoria per cui si tende presto a dimenticare e/o rimuovere chi non ha avuto successo e chi testardamente, magari ingenuamente, ha provato a guardare le cose da un altro punto di vista e si è posto fuori dalle convenzioni. Il terzo, quello contenutistico è che certi titoli, nel loro non essere ideologizzati, “fanno paura” per la loro capacità di analisi e per la loro lungimiranza. Sono titoli che raccontano aspetti della nostra società che appaiono estremi, talvolta indigesti. Film, persino, dichiaratamente provocatori con la loro sproporzione tra ambizioni e mezzi a disposizione – ma profondamente sinceri nonché ancorati alla realtà. Il caso più eclatante è rappresentato dal film di Massimo Pirri Italia: Ultimo Atto? che, nel 1977, con coraggio e lungimiranza, mette in scena la rappresentazione della Storia: l’assassinio di Aldo Moro ad un anno dal suo verificarsi.
Dopo il suo precedente lavoro su Paolo Cavara, uno spazio speciale lo ha dedicato al cinema di Massimo Pirri, anche attraverso una splendida intervista. Ci può descrivere questo grande regista dimenticato?
Innanzitutto è doveroso dare a Davide Pulici quello che gli spetta: non solo per avermi concesso la preziosa intervista contenuta nel libro, ma anche perché è colui che Pirri me lo ha fatto conoscere e amare. Non è facile raccontare in poche righe una persona così complessa e sfuggente come Massimo Pirri ma credo che le parole di Morando Morandini Jr. (contenute nell’intervista che mi ha concesso) che lo ha conosciuto da vicino – perché co-sceneggiatore dei sui film – siano la sintesi migliore per raccontare il suo talento e per spiegare l’oblio che avvolge la sua opera e la sua figura: “Massimo Pirri come regista è stato dimenticato perché non volle mai gratificare gli spettatori e perché non piacque quasi mai ai critici che lo trovavano inclassificabile e spesso lo consideravano un teppista del cinema italiano, un bandito con la cinepresa. Ha avuto parecchi difetti: superficialità, incostanza, mancanza di rigore, approssimazione, incoerenza, sterili ostinazioni; ma la sue virtù – poche ma buone – surclassano i peccati; Massimo è stato un formidabile innovatore del linguaggio cinematografico, un coraggioso e spregiudicato esploratore di terre selvagge, un disinibito amante del cinema capace di osare molto, illuminato da lampi intermittenti di genio”.
Perché ha intitolato il capitolo “L’Urlo Disperato del Profeta”?
Il titolo del saggio è conseguenza del suo non essere ascoltato – in certi casi persino dileggiato e non considerato – perché come tutti “i grandi” non era né ottimista né conciliante. Ma la Storia gli ha restituito ciò che gli è stato tolto in vita e ha dimostrato che ci aveva, maledettamente, visto giusto.
Quanto è cambiato lo spettatore medio italiano nel periodo indagato? Allo stesso modo, quanto è cambiata la critica e il modo di fare critica?
Direi che il “cittadino-medio” ha rinunciato al suo essere parte attiva della vita a e della realtà per limitarsi ad osservare, da spettatore passivo, gli effetti del suo comportamento e lo svolgersi delle “vite degli altri”. Come emerge dal titolo del libro la mia visione in merito non è per nulla ottimista, e pertanto credo che la rinuncia alle responsabilità individuali comporti come unica conseguenza l’indifferenza e l’inattività socio-culturale. Il manicheismo e il conformismo che antropologicamente contraddistingue la società italiana, in fondo, è lo stesso che si è manifestato nei mutamenti della critica cinematografica lungo i decenni: un critica ideologizzata, smaniosa di imporre il suo monolitico punto di vitta, incapace di guardare serenamente e libera da preconcetti alle opere prodotte. Alcuni film raccontati nel libro sono persino inediti, anche a causa del loro non essere allineati, perché i loro registi hanno sistematicamente evitato il compromesso e spinto sull’acceleratore della sgradevolezza con l’intento, dichiarato di non piacere a tutti. Peccati capitali, questi, per molta critica italiana del dopoguerra.
Attraverso le sue pagine vediamo un cinema vivo, che racconta la verità, che inventa, che documenta. Come giudica il rapporto tra cinema e società nell’arco temporale che ha analizzato? Quanto il cinema ha saputo inquadrare la società e quanto la società ha ispirato soggetti e sceneggiature di valore?
Direi che si tratta di un processo biunivoco in cui l’uno non potrebbe esistere senza l’altra. Certamente il cinema che ho raccontato è quello magari imperfetto, contorto, a “genialità” limitata, persino tirato via (in certi casi) ma sicuramente nel suo essere “dispari” e asimmetrico risulta pulsante e vitale come non mai. Solo così ad esempio alcuni film (come Fuoco! (1968) di Gian Vittorio Baldi o Delitto al Circolo del Tennis (1969) di Franco Rossetti) hanno saputo cogliere nell’aria fatti ed eventi in divenire lontano dal loro manifestarsi; solo così il melodramma degli anni ‘50 è riuscito a restituire alla donna un ruolo centrale (nel bene o nel male, non ha importanza) nella società dell’epoca restituendo sullo schermo l’impressione e il desiderio di un’emancipazione ancora lontana; solo così Carlo Lizzani e il suo Banditi a Milano (1968) hanno saputo leggere il cambiamento epocale della criminalità meneghina; ed, infine, solo così Massimo Pirri nell’arco di soli cinque film ha raccontato un‘intera generazione sognatrice e illusa (a parole), sospesa tra conformismo ed eroina (nella realtà).
Nel titolo vediamo scritto Volume 1. Sta già preparando un volume successivo? Cosa ci può anticipare?
In realtà il progetto è in continua mutazione per cui ancora adesso non mi è perfettamente chiaro il percorso che si andrà a delineare. Certo è che il secondo volume è incentrato sulla morte dell’industria cinematografica, sulla dimensione “selvaggia e crudele” dell’occhio dello spettatore, sul collasso sociale degli anni ’70, sullo sfondamento definitivo delle barriere del mostrabile e sull’individualismo esasperato che si manifesta all’alba degli anni ’80. Per il resto la ricerca continua e le sorprese non mancheranno lungo questo percorso di studio e di scavo archeologico tra le gemme perdute del nostro cinema. Credo che ci ritroveremo a parlarne sotto Natale…
Intervista di Giacomo Aricò
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