Véro Tshanda Beya è l’omonima protagonista di Félicité, film diretto da Alain Gomis vincitore al 67° Festival del Cinema di Berlino dell’Orso d’Argento – Gran Premio della Giuria. Una pellicola che arriverà nei nostri cinema il prossimo 31 agosto.
Félicité (Véro Tshanda Beya) è una donna libera e orgogliosa che lavora come cantante in un locale a Kinshasa. La sua vita viene sconvolta quando il figlio di 14 anni è vittima di un incidente e rischia di perdere una gamba se non trova i soldi necessari per l’operazione. Comincia allora una ricerca disperata attraverso la città. Felicitè si smarrisce nel mondo dei sogni, va alla deriva, fino a quando l’ amore la riporta alla musica ed alla realtà.
Lasciamo ora spazio ad un estratto dell’intervista rilasciata da Alain Gomis.
Qual’ è stata l’ispirazione per questo film che ruota intorno ad una donna, alla musica, a Kinshasa?
Penso che la gestazione di un film duri alcuni anni e porti con sé molte cose. All’inizio ci sono state persone Senegalesi che conoscevo, donne forti che rifiutavano ogni compromesso, affrontavano la vita a testa alta e non si arrendevano mai. Ammiravo questa coerenza ma nello stesso tempo riflettevo sull’idea di sottomettere la propria vita alla volontà di qualcun altro. Insomma ero interessato alla dialettica tra lotta e rassegnazione che è un tema comune a tutti i miei film. Alla base del film c’è questa semplice realtà che mette a confronto l’invisibile di tutti i giorni. Immaginavo insomma una specie di Faust… poi ho fatto la scoperta della musica dei Kasai Allstars, che ha catalizzato tutto.
È la prima volta che il personaggio centrale di un tuo film è una donna?
Volevo davvero lavorare sul femminile senza preoccuparmi di stare andando nella direzione opposta ai miei film precedenti che erano centrati sul maschile. Quei personaggi maschili adesso mi sembravano molto vicini e questa volta volevo controllare meno le cose, volevo addentrarmi in nuovi territori e affrontare una certa estraneità. Così ho affrontato anche un modo molto diverso di raccontare.
Il suo personaggio ha la stessa determinazione. Che cosa le hai raccontato di Félicité ? E tu come lo vedi questo personaggio, al di là di quello della classica “donna forte “?
Tshanda continuava a dirmi che che questa era una donna che era “Mezza viva e mezza morta”. Per tutta la vita era riuscita a barcamenarsi di fronte al mondo ma con l’incidente del figlio era stata sconfitta. Tutte le cose che fino a quel momento era riuscita a tenere distanti le caddero addosso. Per lei la domanda divenne: “Questa vita vale la pena o è meglio tornare da dove sono venuta ?”. Il suo personaggio cammina sulla sottile linea che separa questa due opzioni. Era scontato che Tshanda capisse perfettamente questa possibilità di rinuncia. Ma poi io non dico molto di un personaggio all’attore. Cerco di essere molto concreto nel definire l’azione, ma quello è l’ unico confine che traccio. Quello che mi importava era la questione del ritorno alla vita. Come sarebbe stata capace di riemergere dopo una tale caduta ? Quando cadi, quando tocchi il fondo, la vita ti acchiappa strettamente con ogni opportunità e io lo trovo molto affascinante. Se penso alla mia età e alle varie condizioni sociali in cui vivo, mi sembrava importante scavare, andare fino in fondo. C’è una forma di accettazione o di cecità di fronte alla catastrofe che mi faceva paura. Non possiamo parlare di speranza se non affrontiamo le reali difficoltà, se non ci confrontiamo con esse. Parlare di un domani migliore è sempre inevitabilmente una bugia, un placebo. A tal punto che devi cogliere al volo il momento, affrontare il presente,attraversare il tunnel.
Ti sei ispirato a qualche modello tratto dalla narrativa o dalla mitologia?
Saul Williams – che faceva il protagonista in TEY – mi aveva dato un libro del poeta e autore nigeriano Ben Okri intitolato “La strada della fame” che parla del viaggio iniziatico di un giovane ragazzo, Azaro, uno “spirito bambino”. Gli Spiriti bambini rifiutano di vivere sulla Terra e fanno un patto eterno per scegliere di morire il più presto possibile e tornare al loro meraviglioso mondo. In L’Uccello Azzurro di Maeterlinck troviamo anche delle anime che aspettano di essere incarnate, e alcune di loro esitano. Entrare in un corpo, in una storia, in un contesto che ti mette alla prova. Questa cosa così strana molto presente nelle fiabe mi appartiene ed è qualcosa con cui sono sempre in dialogo. Si tratta in parte delle fondamenta del mio desiderio, il mio dominio cinematico.
Questo interrogare l’alterità viene forse da un bisogno?
Ne ho fatto esperienza in un modo molto potente. Forse proviene dal fatto che sono di razza mista? Che significa che non assomiglio a nessuno dei miei parenti, né a mio padre né a mia madre, o ai miei conterranei. Questa estraneità da se stessi è qualcosa che sento il bisogno di affermare. Io penso che il dubbio circa la nostra vera identità sia più diffuso di quanto crediamo. C’è una sorta di abisso che trovo meraviglioso.
Che poesia è quella che ascoltiamo nell’ultima parte del film?
È un poema di Novalis, un estratto degli Inni alla notte, che è infatti un richiamo alla notte come una terra promessa. La cosa divertente è che avevamo iniziato con una traduzione francese del testo tedesco e poi l’abbiamo tradotto in Lingala. Avevo fatto un po’ di letture del lavoro del filosofo Souleymane Bachir Diagne, un sostenitore del concetto di universalità laterale, che è un modo di trovare se stessi nell’altro mentre si accetta l’altro spazio per la sua stessa specificità. È questo il filo conduttore del film. Non è un film su Kinshasa ma piuttosto su di “noi”. Il poema è un inno alla notte, un legame, una traccia della tradizione europea del secolo decimo nono che da questo punto di vista è del tutto sparita. L’Africa la riporta in vita e ne mette i paletti. E’ centrale nel nostro mondo globalizzato e lo sarà sempre di più. Per me è il presente.