Lo scorso gennaio vi avevamo parlato de La Scuola, lo spettacolo diretto da Daniele Luchetti che già lo portò al cinema vent’anni fa. Ideatore e interprete di questo testo teatrale è stato Silvio Orlando, sempre al centro della scena sia a teatro (lo spettacolo ispirò il film di Luchetti), sia al cinema. Ora che l’inizio della scuola si avvicina, vi proponiamo, ancora inedita, l’intervista che abbiamo realizzato a gennaio con Silvio Orlando, un attore eccezionale ed unico che non ha bisogno di altre presentazioni.
Vent’anni fa usciva al cinema La Scuola, diretto da Andrea Luchetti, una pellicola che nasceva dal teatro. Quest’anno lei in teatro questo spettacolo che lei considera “il più importante della sua vita”. Cosa è successo in questi vent’anni?
Prima di tutto penso a quello che è successo a me. Quando si va in teatro la prima domanda che ti devi porre: cosa mi è successo in questi vent’anni? Questo spettacolo è molto importante perché noi attori siamo sempre alla ricerca di autostima e di conferme, dal pubblico e da se stessi. L’ho voluto riportare in teatro esattamente come lo portai per la prima volta vent’anni fa, da un’idea mia. Il fatto che abbia funzionato così tanto mi ha dato una voglia di continuare molto forte. A distanza di anni continuo a ricordare sempre con uno straordinario affetto questo spettacolo che, all’epoca, mi era sembrato quasi una cosa “normale”. Solo dopo ho capito che era speciale: è difficile che uno spettacolo arrivi in maniera così prepotente al pubblico. Così ho deciso di riportarlo in scena, e questa volta lo produco anche (con la sua società, Il Cardellino ndr.).
Com’è la scuola oggi?
Questo spettacolo non vuole avere alcuna componente nostalgica. Però un elemento di riflessione ce lo porta: la scuola descritta, la grande scuola pubblica un po’ figlia degli anni Sessanta-Settanta, che è stata anche un motore di promozione sociale, è una scuola in crisi e fortemente messa in discussione a favore di una scuola più selettiva in cui l’appartenenza sociale abbia sempre più peso. Un proletario e un borghese oggi non si devono più incontrare, mentre una volta la scuola metteva in comunicazione sensibilità diverse. Questo elemento lo rimpiango un po’ e sarebbe un peccato perderlo.
In questi tempi i ragazzi sono molto attivi sul web. Lei come li vede?
La coscienza di sapere tante cose attraverso internet deve essere sempre valutata con la consapevolezza che quella non è ancora conoscenza, non è ancora cultura, ma informazione. La conoscenza va organizzata. La quantità infinita di informazioni danno l’illusione di sapere tutto, ma non è così.
Oltre a La Scuola, le cito Il Portaborse, sempre di Luchetti, e Il Papà di Giovanna di Pupi Avati. Tre film dove lei è un Professore. Come si è trovato in questo ruolo?
Come attitudine personale e come fisicità, forse fare il supereroe mi veniva più difficile (ride ndr.). Il primo vero film che mi ha rivelato agli italiani è stato Il Portaborse. Da quello, un po’ per la pigrizia che c’è in Italia, hanno cominciato a pensare a me per quei ruoli da intellettuale di sinistra in crisi, tanto per fare una sintesi brutale (ride ndr). Però credo di avere riempito due vuoti…
Di quali vuoti parla?
Prima di tutto una riflessione profonda sulla scuola che fino agli anni Novanta mancava, ovvero una rappresentazione seria e seduttiva diversa dalla commedia scollacciata erotica degli anni ’80.
E il secondo?
Il mio modo di essere meridionale, visto che in Italia la collocazione geografica dei personaggi è importantissima. Mi sono discostato da quel classico personaggio meridionale furbastro sempre pronto alla truffetta o all’arrangiarsi. Anzi. I miei personaggi hanno un grande senso civico e morale, con capacità di indignazione. Sono questi i due aspetti di cui sono più orgoglioso.
In Palombella Rossa di Moretti invece era un Professore Sportivo, ovvero l’allenatore della squadra di pallanuoto…
Totalmente inconsapevole di quello che facevo e di quello che dicevo perché di pallanuoto non ho visto una sola partita in tutta la mia vita. Quel personaggio è frutto della mente distorta di Nanni Moretti (ride ndr.) Quell’esperienza è un sogno-incubo insito nella mia carriera cinematografica (sorride ndr.).
Tornando alla scuola, secondo lei quanto i film di Francesco Rosi possono sostituire i libri diventando un insegnamento per i ragazzi?
Direi quasi totalmente. Se vogliamo avere una testimonianza immediata e precisa, sociologicamente perfetta, degli anni ’40 e ’50 bisogna vedere i film di Vittorio De Sica. Così come i tre decenni successivi portano la firma di Francesco Rosi. Il cinema ha soprattutto questa grande attitudine: testimoniare il tempo e raccontarlo, cercando di creare una coscienza popolare.
Tra i film di Rosi, ce n’è uno che ricorda in modo particolare?
Le Mani Sulla Città. Sembrava un film nato di getto, ma in realtà era studiato in ogni dettaglio da un intellettuale che aveva una capacità di studio e approfondimento su temi molto importanti. Lo rappresentava con uno stile molto veloce, dinamico, magnifico.
CAMERALOOK
Sono molto legato agli sguardi in macchina di Ollio, mentre Stanlio gli combina ogni tipo di disastro.
Intervista di Giacomo Aricò