Un mese dentro la vita di un ospedale, sospeso di fronte all’ignoto. Per la prima volta, una videocamera mostra il fardello emotivo e la gentilezza nei rapporti tra pazienti e personale sanitario durante lo scoppio della pandemia da Covid-19. Stiamo parlando di Io Resto, il documentario che Michele Aiello ha realizzato all’interno degli Spedali Civili di Brescia, uno dei più grandi ospedali d’Europa, proprio dove l’emergenza è stata più dura e drammatica. Presentato al Biografilm Festival, il film uscirà il 23 settembre nei cinema della Lombardia e, il 30 settembre, nel resto d’Italia.
Il documentario
L’Italia è nel mezzo di un rigido lockdown dovuto al primo picco pandemico per il COVID-19, la Lombardia è la regione più colpita, i casi di infezione del virus aumentano, gli ospedali non sono adeguatamente attrezzati. È in questo momento che, a Brescia, Michele Aiello decide di affiancare dottori, infermieri e autotrasportatori, tutti coloro che stanno facendo sforzi enormi per affrontare e contenere la diffusione del virus, mentre i media li chiamano “angeli” e “eroi”. Ciò nonostante, molto spesso, i loro continui sforzi, insieme alle sofferenze dei pazienti affetti da COVID-19, rimangono invisibili, eccetto nei reparti dell’ospedale dove si accende la videocamera.
Mettendone insieme i frammenti, con la visione di Io Resto arriviamo a conoscere le persone coinvolte e ogni dettaglio catturato riesce a trasmette il suo peso e la sua importanza nell’interezza di questi momenti drammatici e incerti. Lo spettatore è presente, con grande attenzione intuisce le parole non dette, vive i pochi momenti di distrazione, sempre salvifici, viene sfiorato dalla rassicurazione di una carezza, di uno sguardo, di una parola. La colonna sonora è conosciuta, il suono delle sirene delle ambulanze, mentre è sconosciuto il sottofondo rumoroso, ovattato e assordante dei macchinari che tengono in vita i pazienti. Dalle prime inquadrature sappiamo che Noi siamo lì, tutti, assenti ma presenti, pronti con uno sguardo aperto e infantile a costruire un nuovo immaginario sul futuro.
I dispositivi di protezione individuale (DPI) arrivano da tutto il mondo al magazzino sotterraneo dell’ospedale. Roberto il caposala li controlla pacco per pacco. “Ci fidiamo delle scritte, ma è meglio non fidarsi” dice hai suoi colleghi. È necessario controllare se le etichette tecniche corrispondono alle protezioni adeguate contro un virus così invasivo. Nel frattempo le infermiere fanno i tamponi ai pazienti ricoverati in ospedale prima che scoppiasse la pandemia e ad altri cittadini bresciani. Molte persone non vedono i loro cari da settimane a causa del lockdown, altri li hanno persi recentemente. È una situazione di estrema fragilità. L’incontro tra pazienti e infermiere spesso si apre a un flusso di emozioni e storie. Ciò accade con Monica, molto preoccupata per il padre gravemente ammalato, che come un fiume in piena si racconta all’infermiera Itala.
Nei reparti Covid non c’è tregua. Le porte che si aprono e si chiudono sono un tema ricorrente, come se fossimo in una prigione da cui il virus, criminale, non deve assolutamente uscire. Medici e infermieri corrono lungo i corridoi bianchi per cercare di stabilizzare le violente e improvvise crisi respiratorie. Quando i pazienti ansimano, le maschere per l’ossigeno non sono sempre disponibili e bisogna aspettare che arrivino da altre parti dell’ospedale. La dottoressa Lina empatizza molto coi pazienti e si scontra con l’inevitabilità di non poterli salvare tutti. Il suo sguardo intenso sembra chiedersi fino a che punto arrivi la sua responsabilità in questi momenti critici. E mentre Tania sembra abbandonare questa vita, Franco sembra resistere ai colpi più duri della malattia.
Nei momenti di maggiore calma, medici e infermiere si muovono da una stanza all’altra, come api da cella a cella, cercando di chiacchierare e interagire coi pazienti dall’altra parte delle finestre a vetro. La sequenza del bacio tra l’infermiera Noemi e la paziente Giusy è iconica: pur indossando una mascherina FFP2 le loro labbra si incontrano sul vetro (foto copertina). Giusy è tra i pazienti più vivaci, di quelli che tirano su il morale, e che aiuta a ritrovare tutto ciò che è rimasto in fondo al cuore per proteggersi da una fragilità spaventosa che si nasconde sotto la pelle. Le sorelle Elena e Silvia lo sanno bene. “Che viaggio: andata e ritorno”, si dicono guardandosi finalmente negli occhi.
Elena di soli 39 anni è stata ricoverata in terapia intensiva e sua sorella Silvia, dottoressa infettivologa, ha fatto tutto il possibile per tirarla fuori da quell’incubo. Elena ricorda di non essere mai riuscita a dormire, aveva continuamente le allucinazioni e ora è terrorizzata al solo pensiero della fame d’aria. Di fronte all’incertezza del COVID-19, Franco, Giusy ed Elena lottano per la loro vita. I loro sforzi si legano fortemente a quelli di Lina, Silvia, Noemi e degli altri operatori sanitari, i quali tra le altre cose facilitano e mantengono i contatti con i familiari dei pazienti. Non sono mere relazioni pazientemedico. Sono qualcosa di molto più intimo, legami di forte e delicata profondità, l’ultima cosa a cui potersi aggrappare, di fronte a questa tragedia collettiva.
Michele Aiello racconta…
“Ogni volta che penso a un medico, penso a mia mamma, Silvia, una pediatra inarrestabile e generosa. Fin da piccolo sono affascinato dalla sua attitudine al lavoro, completamente dedita alla cura dei bambini, che siano pazienti suoi o meno, sempre disponibile anche ben oltre gli orari di reperibilità. Quando la pandemia ha colpito l’Italia e gli ospedali hanno cominciato a fronteggiare la prima grande ondata di pazienti, ho pensato alle tante Silvie, instancabili lavoratrici che rappresentano un punto di riferimento prezioso per la loro comunità. Da lì è cresciuto il desiderio di raccontare un certo tipo di rapporto nella cura, non solo sanitario ma di sincero trasporto. Per questo motivo non volevo ritrarre il personale sanitario come un eroe impersonale, come montava nella grande narrazione mediatica. Piuttosto, mi interessava cogliere l’essenza di alcuni momenti capaci di raccontare, con piccoli gesti, i grandi dilemmi dell’umanità in un momento storico così importante per tutti. In particolare, mi interessava il punto di vista di persone normali nella condizione obbligata di dover lavorare in condizioni eccezionali, senza un tornaconto personale“.
“Inoltre, volevo intercettare un altro imponente e delicato momento di questa situazione estremamente complessa: l’isolamento dei pazienti. Le uniche persone che possono stare coi pazienti affetti da COVID-19, e confortarli, sono medici e infermieri. Ma questi unici contatti sono possibili solo attraverso le barriere protettive, anche nei momenti più critici, in punto di morte. Questo doppio dramma di morire senza i propri cari attorno, e di dover vedere morire qualcuno in solitudine, doveva essere raccontato. Ho cercato di farlo nella maniera più rispettosa possibile. Il rispetto verso i testimoni di questa storia non è stata l’unica sfida di questo progetto. Fare un film senza poter fare sopralluoghi è davvero tremendo. Di fatto, io e Luca Gennari abbiamo scritto la storia mentre la filmavamo“.
“Uno dei pochi punti fissi che ci ha guidati fin dai primi giorni di ripresa è stato dirsi che questa storia avrebbe potuto solo che essere collettiva, e così poi è stato. Il punto di vista, invece, si è costruito naturalmente nello stare lì. Pian piano siamo diventati anche noi parte integrante di quella cosa che stavamo vivendo e filmando, compagni di viaggio di tutte le persone di questa storia“.