© 2019 - LES FILMS DU KIOSQUE - PATHÉ FILMS - ORANGE STUDIO

La Belle Époque, Nicolas Bedos ci fa rivivere il giorno più bello della nostra vita

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Dopo il grande successo alla 14. Festa del Cinema di Roma, giovedì 7 novembre arriva al cinema La Belle Époque, il film scritto e diretto da Nicolas Bedos. Da Daniel Auteuil a Fanny Ardant, da Pierre Arditi a Guillaume Canet fino ad arrivare alla rivelazione di Cannes 2019 Doria Tillier: un grande cast riunito in una commedia elegante e nostalgica, capace di far ridere ed emozionare il pubblico di ogni età.

Il film

Victor (Daniel Auteuil) è un uomo all’antica che odia il presente digitale. Quando un eccentrico imprenditore, grazie all’uso di scenografie cinematografiche, comparse e un po’ di trucchi di scena, gli propone di rivivere il giorno più bello della sua vita, Victor non ha dubbi. Sceglie di tornare al 16 maggio del 1974: il giorno in cui in un café di Lione ha incontrato la donna della sua vita, la bellissima Marianne (Fanny Ardant).

Nicolas Bedos

Riportiamo un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Nicolas Bedos.

Come è nata l’idea del film?

Da un’immagine, o meglio da una situazione che mi è sembrata sia patetica che comica: ho immaginato un uomo avanti con gli anni litigare con sua moglie, a casa. Lei lo sta criticando per la sua misantropia, la sua incapacità di stare al passo con i tempi, con la tecnologia, con i suoi figli e così via. Quindi, l’uomo esce dalla cucina ed entra in una piccola stanza dove tutto – dalla decorazione interna agli LP fino ai vecchi nastri VHS – lo riporta agli anni ’70. Una specie di bolla protettiva che lui stesso ha creato. L’ho visto accendersi una sigaretta, guardare una trasmissione in una vecchia TV di legno e tirare un sospiro di sollievo. Eccolo: un uomo che sta annegando nel presente e si rifugia in un periodo che lo rassicura e lo protegge. Volevo filmare la vertigine che a volte sento intorno a me. Soprattutto perché quest’uomo è nato dal riflesso di alcune persone che mi sono molto vicine e, per alcuni aspetti, da me stesso. Scrivere questa storia è stata una vera avventura anche psicoanalitica.

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Quindi c’è una grande componente autobiografica in questa storia?

Sì e no, come per il mio film precedente: le storie che racconto sono inventate da zero. È il mio lavoro e il mio piacere. In passato ho raccontato molto di me stesso nei film o nei libri, al punto da provocare un po’ di confusione. Questo film è pura finzione. Tuttavia, ho bisogno di sentire intimamente i personaggi, il loro carattere, le loro emozioni.

Qual è il tuo equilibrio ideale tra finzione e realtà?

Se una scena non tocca qualcosa che mi riguarda personalmente, tendo ad allontanarmi. Anche se si tratta di un episodio di vita reale, non significa nulla per me. La mise-en-abyme è particolarmente evidente quando si tratta dei personaggi interpretati da Doria e Guillaume. Ho scritto quelle scene come una lettera di scuse dopo le mie esplosioni lunatiche sul set di Un amore sopra le righe! Ma, a parte questo aspetto aneddotico, la storia di questa coppia mi ha dato la possibilità di affrontare il tema del transfert narcisistico che colpisce alcuni registi i quali, da tempo immemorabile, sono stati in grado di confondere la finzione e la realtà, al punto da riuscire ad amare l’attrice (o l’attore) solo attraverso la loro macchina da presa. Sto pensando in particolare ad alcuni grandi nomi della Nouvelle Vague! Guillaume e Doria costituiscono anche il lato meno cerebrale, più carnale, più nevrotico della coppia formata da Daniel e Fanny.

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Sembra che tu stia sviluppando una riflessione sul passare del tempo, sul valore dei ricordi…

Senza credermi Marcel Proust, fin da giovanissimo ho sviluppato una paura patologica per quanto riguarda l’erosione dei sentimenti, per la distruzione dei ricordi, e tutto il resto. Il terrore di innamorarsi attraversa le mie tre opere teatrali e i miei due film. Sto cercando – invano – dei modi attraverso il cinema che mi permettano di recuperare l’intensità di un ricordo, che mi diano la possibilità di conciliare tutti questi frammenti di esperienza di cui siamo tutti composti.

Nel film tratti una forma di nostalgia sociale. Cosa ti ha spinto a parlarne, questa volta?

Perché lo vedo intorno a me, anche tra i ferventi progressisti, alcuni dei quali non sanno davvero dove vivono! La graduale scomparsa del manicheismo politico, confermato dall’arrivo di Macron, la corsa alla rivoluzione tecnologica, la scarsità di importanti appuntamenti televisivi e quindi di una certa condivisione culturale collettiva, tutto ciò ci spinge e ci provoca ad essere, se non reazionari, almeno nostalgici! Mi sono reso conto di pronunciare, con sorpresa, o di ascoltare intorno a me tutte le lamentele di Auteuil nel film! Non che il film si schieri dalla parte dell’”era meglio prima”, ma piuttosto si diverte, poiché il personaggio di Auteuil si evolve fino alla fine, anche se è inevitabile non vedere questa vertigine, quest’ansia di cui si parlava prima. D’altra parte, al di là della nostalgia di una società passata, Victor vuole tornare alla sua giovinezza, un periodo in cui si sentiva gratificato, innamorato, sapeva divertirsi e si trovava più attraente. C’è un certo grado di narcisismo nel suo rifiuto del presente. Ma è proprio grazie al rispetto per sé stesso, e ai desideri che provava nel passato, che riesce a trovare la forza per affrontare il presente. Finisce persino per venire a patti con i media che disprezzava, solamente due settimane prima. Il suo fisico e il suo modo di vestire cambiano durante tutto il film. In questo Daniel è stato incredibile. Volevo filmare la rinascita mentale e fisica di un uomo stanco, disorientato, amareggiato, condannato all’oblio, per ridargli il suo sorriso e il suo fascino usando tutti i mezzi a mia disposizione.

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In effetti, come si fa a discutere dell’opposizione tra il mondo di ieri e quello di oggi senza cadere nella retorica conservatrice de “le cose erano meglio prima”?

Il modo in cui lo fa Fanny Ardant alla fine del film: sottolineando tutti gli svantaggi sociali e intellettuali degli anni ’70! Quando ricorda a Victor che le persone non erano così libere, che anche loro ascoltavano le cazzate dette in televisione, che lo stupro era impunito e che le donne non potevano abortire, obiettivamente ha ragione. Il film descrive semplicemente la nostalgia di un uomo vulnerabile, la nostalgia per un’epoca in cui, un amante dei libri come Victor (non a caso è un fumettista) ha visto più persone girare le pagine di un romanzo, di un giornale o di un fumetto e parlare effettivamente con qualcuno piuttosto che inviare SMS e Gif. E devo anche ammettere di essere attratto dal fascino puramente cinematografico degli anni ’70. Realizzo film che probabilmente andrei a vedere e in cui mi sento a mio agio. Un certo “altrove” visivo e narrativo.

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