Géraldine Nakache, Judith Chemla e Yaël Abecassis sono le tre protagoniste de La Casa Delle Estati Lontane, il film scritto e diretto da Shirel Amitaï nel 2014 e da oggi nei nostri cinema.
Israele, 1995. La pace è finalmente tangibile. Nella piccola città di Atlit, Cali (Géraldine Nakache) ritrova le sue due sorelle, Darel (Yaël Abecassis) e Asia (Judith Chemla), per vendere la casa ereditata dai genitori. Tra momenti di complicità e incontenibili risate, riaffiorano i dubbi e gli antichi dissapori, ma appaiono anche strani convitati che seminano un’allegra confusione. Il 4 novembre il processo di pace viene annientato, ma le tre sorelle rifiutano di abbandonare la speranza.
Lasciamo ora spazio ad un estratto dell’intervista rilasciata dalla regista Shirel Amitaï.
La Case Delle Estati Lontane racconta la storia di tre sorelle che si ritrovano in occasione della vendita dell’eredità di famiglia: una casa in Israele…
Il punto di partenza del film è l’idea che la pace può avere inizio solo quando si conosce e si occupa il posto giusto. Avere dei fratelli o delle sorelle è una ricchezza: può essere un’esperienza divertente e leggera, ma può anche capitare di vivere atti di violenza e di sentirsi feriti. A volte è una guerra, una guerra di luoghi. Tra fratelli o sorelle si è costretti a condividere, ma i primi conflitti iniziano con la frase: «È mio!». Un’eredità solleva una serie di quesiti sul concetto di spazio perché probabilmente è l’ultima cosa che si divide. Quando si arriva a contemplare anche l’idea del “è nostro” e del “è tuo”, la pace diventa possibile. E poi tutto è animato dai nostri demoni personali ai quali forse accordiamo un posto eccessivo.
Il fatto che il paese sia Israele amplifica la problematica del concetto di spazio…
Il concetto di spazio non è semplice in alcun luogo, ma effettivamente in Israele assume le dimensioni di un labirinto infinito e irto di spine. La mia generazione è cresciuta con un mito: «Prima non c’era niente. Abbiamo costruito un paese, quindi adesso noi qui siamo a casa nostra, nel posto che ci spetta…». Solo che il popolo palestinese reclama quella stessa terra che da allora non è altro che un teatro di guerra. Senza entrare nei dettagli storici o nelle prese di posizione politiche, ho voglia di dire che per la mia pace personale, ho bisogno che anche l’altro abbia il suo giusto spazio e luogo. Ho scelto un momento nella storia di Israele in cui il paese era a due centimetri dalla pace. Tre sorelle che si prendono per i capelli mentre il paese parla di pace. E poi, tre sorelle che si ritrovano mentre il paese perde la speranza.
Scegliendo di ambientare il racconto in un interno, la storia politica assume ancora più importanza poiché siamo portati a leggere la storia di questa famiglia come metafora di questa.
La storia delle tre sorelle, del loro rispettivo posto, dei loro conflitti, possono effettivamente estendersi e portarci a parlare di Israele e della Palestina. Ogni nazione ha bisogno di avere un suo territorio delimitato da confini chiari e precisi. Anche all’interno di una famiglia bisogna sapere porre dei limiti. Lo spazio chiuso mi interessava anche perché avevo voglia di raccontare l’incontro a distanza di anni di queste tre sorelle in un luogo e un tempo unici senza che si sappia troppo delle loro vite. Quello che avviene in quella decina di giorni avviene soltanto lì.
Con la comparsa dei genitori e del bambino palestinese, il film sconfina nel fantastico.
Non so se si può parlare di fantastico, preferisco usare il termine “invisibile”. Avevo voglia di mettere sullo stesso piano ‘la realtà’ e tutto quello che portiamo con noi di invisibile. Il vissuto, le fantasie, i sogni abitano tutti insieme e partecipano attivamente a quello che viviamo costantemente. I genitori, l’asino e il bambino palestinese emergono perché sono evocati dalle sorelle e quindi prendono forma, appaiono e scompaiono a loro piacimento. Quando questo invisibile si mescola alla realtà crea confusione, nel caso dei genitori è gioioso, nel caso del bambino palestinese è più grave. Lo spazio chiuso concede questa libertà che permette un universo nel quale il visibile e l’invisibile coesistono senza frontiere. Volevo che dopo un po’ nel film si confondessero le acque e non capissimo più se quello che accade a Cali è reale o no.
Questo modo di mettere in scena l’invisibile contribuisce a demistificarlo.
Essere in pace con i propri fantasmi è fondamentale. Non rivendicano nulla, siamo noi che li chiamiamo e che ci serviamo di essi per giustificare le nostre guerre. Troppo spesso li brandiamo come un vessillo, sia a livello personale sia a livello collettivo.
Nel suo film si percepisce un forte desiderio di commedia.
L’invisibile scherza in continuazione: forse perché sono incapace di mettere a tacere i miei fantasmi, riesco a negoziare con loro usando delle battute di spirito. Come parlare dei conflitti in merito agli spazi all’interno della famiglia, della politica in Israele, senza cadere nella pesantezza psicologica o politica? Volevo che il tono fosse costantemente lieve. Questa delicatezza mi ha permesso di trattare in modo più grave l’assassinio di Rabin. È uno schiaffo tale da non consentire alcuna nota di leggerezza. Anche il bambino mi ha ricondotta a una certa serietà.
Lo spettatore prova una sensazione di intimità con la casa e ha l’impressione di aver vissuto il tempo del film senza tuttavia essere in grado di dare una collocazione geografica precisa.
A partire dal momento in cui ho scelto di girare lì, quella casa si è sottratta, come se anche lei fosse maliziosa e mi dicesse: «D’accordo, hai deciso di invadermi con un branco di trenta persone, ma non riuscirai mai a vedermi nella mia totalità!». Impossibile trovare un asse che arrivi a coglierla nel suo insieme. È un personaggio muto che si nasconde dietro agli alberi. Ora quegli alberi rivelano qualcosa della casa: chi ha piantato quegli ulivi centenari? Chi ne è il vero proprietario?
Alla fin fine la vendita della casa si rivelerà secondaria nel film.
Quando i religiosi americani si presentano per comprare la casa, la domanda che sorge in Cali è «vendere, ma a chi?». A coloro che portano avanti un progetto politico in nome di Dio? Non ho nulla contro la religione, né contro le credenze che professa, per questo ho inserito la preghiera che canta Asia lungo la strada e la canzone di Mike Brandt alla fine. Ma mi rifiuto, in particolare nel contesto politico israeliano, di abbandonare Dio a coloro che lo utilizzano a scopi geopolitici. Effettivamente la questione della vendita della casa è soltanto un pretesto: mi interessava la questione dell’eredità, dell’ultima suddivisione che a volte diventa l’ultima guerra. Un’eredità è il segno di un’appartenenza. Quando diciamo «ho ereditato questo anello da mia nonna» di che cosa si tratta? Dell’anello o della nonna? Ereditando un oggetto, ereditiamo la persona che resta dentro di noi.