Presentato lo scorso ottobre in anteprima mondiale all’interno della selezione ufficiale del Festival dei Diritti Umani di Lugano e dopo la messa in onda su Tv2000 in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid (18 marzo), lunedì 12 luglio arriva nelle sale Ritorno In Apnea, il documentario diretto da Anna Maria Selini e prodotto da Alberto Valtellina. Il film è un’indagine personale della giornalista-regista sul trauma vissuto a Bergamo e in valle Seriana tra marzo e maggio 2020, quando la provincia ha registrato fino a 250 morti in un giorno.
Il film
In provincia di Bergamo, tra marzo e aprile del 2020 sono morte seimila persone a causa del Coronavirus, il doppio di quelle che risultano dai dati ufficiali. Duemila le vittime nelle sole residenze per anziani. Anna, giornalista bergamasca che ormai da anni vive a Roma, ritorna a casa per capire e raccontare il momento difficile che la sua terra sta attraversando. Un viaggio nella provincia più flagellata dalla prima ondata di Coronavirus, tra luoghi e persone care direttamente colpite. Un’esperienza che nel tempo si fa sempre meno giornalistica e più personale. Tra il dolore, il trauma collettivo e la ricerca di un senso. Il film è stato girato fra marzo e maggio del 2020.
Anna Maria Selini racconta…
“Me ne sono andata da Bergamo quando avevo diciotto anni, passando da Bologna, Madrid e ormai da nove anni Roma. La mia famiglia invece è sempre rimasta a Bergamo, in provincia. La mia è una zona di fabbriche, fabbriche e ville è il paesaggio che si incontra per lunghi tratti d’autostrada. Un paesaggio di cui non ho mai sentito la mancanza, fino al 18 marzo del 2020, la notte in cui un ragazzo napoletano ha diffuso una foto destinata a diventare il simbolo del Coronavirus nel mondo. Decine di mezzi militari che, nel silenzio delle vie deserte per il lockdown, scortavano le vittime del virus fuori Bergamo, perché in tutta la provincia non si sapeva letteralmente dove cremarle. Quella notte ho pianto e forse non mi sono mai sentita così legata alla mia terra“.
“Erano giorni che raccoglievo racconti di amici e parenti terrorizzati, anche quelli di solito più freddi e razionali. Mio fratello era stato contagiato e ricoverato in ospedale, e a me sembrava di impazzire stando lontana. Così, tempo di rispolverare la telecamera usata per l’ultima volta nella Striscia di Gaza, ho deciso di partire. Sono specializzata in aree di crisi, ma mai avrei immaginato che casa mia un giorno lo sarebbe diventata“.
“Tornare è stato stranissimo, la stazione Termini sembrava un checkpoint, ero spaventata, venendo da Roma non sapevo esattamente cosa aspettarmi. Ma i bergamaschi erano più terrorizzati di me, nemmeno una mia cara amica ha accettato di incontrarmi nelle prime settimane. La vita si era spostata su Skype e le strade di solito trafficatissime erano desolate e inquietanti. Non mi era mai capito di faticare a convincere le persone a uscire di casa per farsi intervistare. Per settimane non ho visto la mia famiglia e il mio ragazzo. Poi ho incontrato Alberto Valtellina, anche lui era sigillato in casa e lentamente si è unito al mio progetto. Ed è un po’ colpa o merito suo se a un certo punto qualcosa è cambiato, se da giornalista che rispetta la giusta distanza sono entrata di più nel film, passo dopo passo, arrivando a coinvolgere persone a me care come mio fratello“.
“Per tre mesi ho percorso su è giù la bergamasca, in particolare la Valseriana, epicentro del contagio, cercando prima di tutto di capire quello che è successo: in due mesi sono morte seimila persone, l’equivalente di due piccoli paesi rasi al suolo. Ho raccolto le testimonianze di chi è stato in prima linea, chi nelle retrovie, chi ha perso parenti o ha temuto di morire. E ho incontrato Emanuele – che per la prima volta ha fatto entrare una giornalista in casa sua – il ragazzo che ha scattato la foto da cui il mio viaggio è partito“.