Restaurato dalla Fondazione Cineteca di Bologna presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata con il sostegno di Giorgio Armani, torna da oggi al cinema I Pugni in Tasca, il primo film scritto e diretto cinquant’anni fa da Marco Bellocchio. Con la musica di Ennio Morricone e la fotografia di Alberto Marrama, il film vedeva come protagonisti: Lou Castel, Paola Pitagora, Marino Masé, Pierluigi Troglio, Liliana Gerace, Jeannie Mac Neil, Mauro Martini, Gianni Schicchi, e Alfredo Filippazzi.
In I Pugni in Tasca, il tormentato rampollo di una ricca famiglia di Bobbio uccide la madre paralitica e il fratello minorato, confidando nella complicità morbosa che lo lega da sempre alla sorella. È questo il folgorante, crudele esordio di Marco Bellocchio che infierisce con rabbia e disperazione contro la famiglia, il cattolicesimo e altre colonne portanti della borghesia italiana. In equilibrio fra adesione e distacco dalla folle lucidità del protagonista, Bellocchio prefigura alcuni umori del ’68. A cinquant’anni di distanza mantiene intatta la propria modernità e carica corrosiva.
Riguardo a questa sua opera prima, così si espresse Alberto Moravia: “Marco Bellocchio ha dato fondo in questo suo I pugni in tasca a tutto ciò che di solito costituisce il mondo della giovinezza. In questo film c’è di tutto, davvero: odio e amore della famiglia, ambiguità dei rapporti fraterni, attrazione verso la morte, entusiasmo per la vita, volontà astratta di azione, furore impotente, malinconia morbosa, violenza profanatoria e infine, a sfondo di tutto questo, il senso cupo e fatale di una provincia senza speranza”.
Co-prodotto da lo stesso Bellocchio (con l’aiuto del fratello che ottenne un prestito bancario) e Enzo Doria, con questo film il regista volle raccontare “una storia molto personale, nella quale potessi riconoscermi”. Bellocchio pensò a un tema che aveva attraversato la sua adolescenza, “quell’aspetto infelice della vita di famiglia in cui alcuni, soprattutto mio fratello Paolo, distruggevano ogni possibilità di gioia, obbligandomi a nascondermi”. In partenza c’era così il protagonista, “che vuole restare in famiglia e dominarla eliminando i fratelli ‘imperfetti’ o improduttivi. Poi ho costruito gli altri personaggi, in particolare la madre. Alcune cose venivano dalla mia famiglia, altre erano frutto di fantasia”.
Marco Bellocchio ha attinto “anche alla mia cultura, un po’ al surrealismo, un po’ alla letteratura, un po’ a quel che era diventata la mia vita. La storia è nata così. Sapevo anche di dover realizzare un film piuttosto intimo, perché i soldi erano pochi. Quindi il grosso del film andava girato all’interno di una casa”.
La molla che spinse Bellocchio a realizzare il suo primo lungometraggio fu “la necessità di definirsi in qualche modo con la realtà del cinema, di uscire dalle aspirazioni indifferenziate dell’età formativa, dal mondo delle possibilità aperte e non ancora realizzate, per confrontarsi con le cose” come scrisse Sandro Bernardi nel libro Marco Bellocchio (edito da Il Castoro, 1998).
Il film parte dunque dallo stesso Marco, dalla sua esperienza provinciale, dal senso di isolamento che ne deriva: “la dimensione della provincialità è appunto la lontananza – continuò Bernardi – l’essere difficilmente raggiungibili da tutto, e semmai essere raggiunti solo da onde senza vento, da ripercussioni attenuate: una dimensione adolescenziale, un mondo sospeso, in attesa”.
“Non sapevo, allora, chiamando il film I Pugni in Tasca invece che L’Età Verde, che il titolo fosse una citazione di Rimbaud, ma non mi è certo dispiaciuto saperlo” racconta il regista piacentino. All’inizio il film avrebbe dovuto avere un’altra dimensione, quella della politica: “Ale aveva degli amici che facevano politica, ma la politica non lo soddisfaceva e cosi pensava che solo attraverso atti estremi si poteva modificare la vita. Ma il suo problema era quello di scacciare i fantasmi e non quello di ammazzare la gente, come fa nel film. L’epilessia di Ale mi sembrava andasse bene proprio plasticamente: evitava al film quelle cose sentimentali, intimistiche, che ci sono spesso nelle opere prime, gli dava una certa violenza anche di immagini, e io volevo che fosse un film violento”.
Poi Bellocchio si accorse che “per lo spettatore medio è stato un discorso un po’ limitativo, perché superfluo, dato che il film era già violento, senza l’epilessia. Esaurita la sua esperienza, al massimo del dominio familiare, Ale non poteva che esaurirsi, il finale è stato deciso proprio alla fine, con la crisi mortale di epilessia. È stato detto da molte parti che il film ha previsto il ’68 e in qualche modo è vero, se si pensa che il ’68 ha fatto esplodere delle tensioni frustrate, disperazioni e violenze familiari tenute accuratamente nascoste”.
Bellocchio scrisse I Pugni in Tasca a Londra, dove era andato “forse perché non sapevo bene che fare, frequentai dei corsi di cinema di Thorold Dickinson, era questa la scusa, con una piccola borsa di studio” spiega il regista. L’idea del soggetto “era la condensazione di fantasticherie di anni, di tutta una storia di solitudine dentro la famiglia. Eravamo testimoni, io e i miei fratelli, di una follia cui nessuno poteva mettere rimedio, e che veniva subita con reazioni nostre sempre uguali. Dalle fantasticherie di allora nacque un intreccio, crebbero dei personaggi. Poi naturalmente la storia si sviluppò diversamente, quando doveva diventare un film e ancora mentre il film veniva girato”.
Per il ruolo di Ale, all’inizio fu contattato un personaggio popolare come Gianni Morandi: “era molto giovane e Doria lo conosceva grazie a un amico comune. Aveva girato film mediocri che erano stati accolti da un discreto successo di pubblico. Pensavamo che avrebbe risolto tutti i nostri problemi. Lesse la sceneggiatura e diede il suo consenso, ma la RCA, sua casa discografica, oppose un netto rifiuto dicendogli che il film gli avrebbe rovinato la carriera. Rimpiange ancora di non averlo fatto”. Alla fine la parte andò a Lou Castel.
L’incontro tra Bellocchio e Lou Castel avvenne per puro caso, alla mensa del Centro Sperimentale di Cinematografia: “Castel seguiva il corso di regia da studente straniero, gli proposi un provino, in lui c’era qualcosa che arricchiva il personaggio”. Durante le riprese Bellocchio si accorse che tra lui e Alessandro c’era una relazione profondissima: “Lou aveva un tipo di isterismo che mi pareva adeguato al personaggio di Ale. Nel copione però Ale non aveva l’apparente mitezza di Lou, avrebbe dovuto essere uno più brutto di Lou e sempre carico di risentimenti. Lou ha fatto un Ale molto più criminale anche perché molto più dolce”.
Nella parte di Giulia fu invece scelta Paola Pitagora: “è stata anche lei una scelta felice, io avevo pensato a una come la Strasberg, una che poteva essere molto bella o molto brutta da una scena all’altra, più trasandata. Il provino della Pitagora mi convinse subito, anche perché era una professionista, sapeva dire la battute, aveva già recitato”.
Simbolo e personaggio del film è Ale. Lou Castel ricorda così l’esperienza: “mentre recitavo nel film, durante tutte le riprese io non pensavo affatto a tutte le implicazioni che la storia aveva e avrebbe avuto. Ma avevo dentro sicuramente quel tipo di tensione, di ribellione che era della nostra generazione, ci mettevo questo. Io venivo dalla Germania, e girando il film pensavo alla tensione della generazione tedesca, anche se può sembrare strano ci mettevo questo tipo di carica”.
“I Pugni in Tasca di Marco Bellocchio è probabilmente l’opera d’esordio più sconvolgente della storia del cinema”
Pauline Kael