Vincent Lindon è lo straordinario interprete de La Legge del Mercato, il film – in sala da domani – diretto da Stéphane Brizé (titolo originale La Loi Du Marche) con cui ha vinto il Premio come Miglior Attore all’ultimo Festival di Cannes.
All’età di 51 anni e dopo 20 mesi di disoccupazione, Thierry (Vincent Lindon) inizia un nuovo lavoro che lo porterà presto a confrontarsi con un profondo dilemma. Cosa è disposto a sacrificare per non perdere il proprio lavoro?
Per addentrarci nelle tematiche della pellicola, vi proponiamo l’intervista integrale rilasciata dal regista Stephané Brizé.
Ci racconta come è nato il progetto di questo film?
I miei film hanno sempre raccontato storie molto personali, non ho mai ritenuto necessario soffermarmi sull’ambiente sociale in cui erano collocati i personaggi. Successivamente ho iniziato ad osservare la brutalità dei meccanismi e dei rapporti dominanti nel nostro mondo, sovrapponendo l’umanità di un uomo senza sicurezza lavorativa, alla violenza della nostra società.
In che momento è diventata chiara la forma che avrebbe preso il film?
Abbastanza rapidamente, in realtà. Fin dall’inizio del processo di scrittura, sapevo che il film sarebbe stato girato con una piccola troupe, con attori non professionisti e che avrei voluto lavorare con Vincent Lindon. Non solo, ho spiegato a Christophe Rossignon il produttore e a Vincent Lindon che avrei voluto co-produrre il progetto con un budget ridotto e investendo la maggior parte dei nostri compensi nel film, naturalmente la troupe è stata regolarmente pagata. Non tutti i film possono essere realizzati in questo modo ma con questo è stato possibile. L’argomento, lo stile e l’aver autofinanziato il film, è una scelta di coerenza. È stata anche una conferma che i film possono essere realizzati in maniera differente, in un momento in cui l’industria cinematografica affronta il grande interrogativo di come finanziare le produzioni. Ho anche ripensato alla scenografia e all’allestimento così come alle mie motivazioni. Questo film è frutto della necessità.
Qualcuno potrebbe interpretare come singolare la scelta di far recitare Vincent Lindon accanto ad attori non professionisti.
L’idea di questo “incontro” è nata tanto tempo fa. Avevo già girato con attori non professionisti in piccoli ruoli e ogni volta avevo avuto la sensazione che mi conducessero più vicino alla realtà, che poi è quello che mi interessa maggiormente nel mio lavoro. Ho voluto forzare ulteriormente la situazione inserendo un attore di grande esperienza in un cast di non professionisti. Volevo costringere Vincent Lindon a lavorare in un territorio che come attore non aveva mai esplorato.
Come ha trovato gli attori?
Molti dei ruoli corrispondono effettivamente al loro lavoro: il personale della sicurezza, la consulente della banca, lo staff dell’ufficio di collocamento, le cassiere etc. Il direttore del casting, Coralie Amédéo, ha osservato le persone che svolgevano lo stesso lavoro dei loro personaggi nel film. Sono rimasto sorpreso dalle persone che ho incontrato. Avevo dei dubbi sul fatto che fossero capaci di fare quello che fanno gli attori ma non ho mai pensato che un attore non potesse fare quello che fanno loro. È affascinante osservare le persone andare incontro ad un regista e a un direttore di casting, in un ufficio a loro non familiare e imporre la loro cruda e potente verità con impressionante autorità. Da dove prendono la capacità di essere completamente se stessi di fronte ad una cinepresa? È un mistero che continua ad affascinarmi.
La presenza di attori non professionisti ha influenzato il modo di recitare di Vincent Lindon?
Senza dubbio. Io lo conosco abbastanza bene, questo è il terzo film che facciamo insieme. Era incredibile in Mademoiselle Chambon e in A Few Hours of Springs, ma in questo film raggiunge un livello altissimo. Ha imparato a lasciarsi andare, così come ho fatto io come regista. E lo ha fatto senza rete di sicurezza. Li ho coinvolti tutti insieme in una ripresa, per attendere che accadesse il miracolo. Avevo uno schema preciso con tutte i loro “percorsi” e le loro possibili “deviazioni”.
Come ha lavorato sugli aspetti tecnici e sull’immagine in particolare, perché risultassero funzionali al suo progetto?
Per prima cosa ho scelto un direttore della fotografia che avesse lavorato solo con i documentari. Volevo qualcuno che fosse abituato ad essere totalmente autonomo con le inquadrature e le messe a fuoco. Ho lavorato con Eric Dumont, un giovane direttore della fotografia, di appena 30 anni e che non aveva mai lavorato per un film di finzione. Desideravo spiegargli con precisione la mia idea della scena e poi lasciare che lui la traducesse in una composizione. Ad un certo punto, è diventato un vero e proprio attore in scena, in base a quello che inquadrava, dava alla scena un significato o un altro. Quello che mi interessava era soprattutto il punto di vista di Thierry/Vincent. Lui è al centro della storia. Qualsiasi cosa vede e sente mi interessa. Ed è il motivo per cui a volte lo filmavo per lungo tempo anche se non era il protagonista di quella scena. Ho filmato Lindon come un boxer che picchia, senza necessariamente riprendere chi colpisce. Questo ha richiesto l’utilizzo del cinemascope, avevo bisogno di mostrare cosa accadeva davanti e intorno a lui.
Potrebbe definire La Legge Del Mercato un film politico?
Si, politico nel senso che riguarda l’organizzazione della società. Ho osservato un uomo che ha dato il suo corpo, il suo tempo, la sua energia ad una compagnia per 25 anni prima di essere messo da parte perché i suoi capi decidono di produrre quel prodotto in un altro paese, dove il lavoro costa meno. Non è stato licenziato perché non faceva bene il suo lavoro. È stato fatto fuori perché alcune persone volevano fare più soldi. Thierry è la conseguenza diretta di pochi azionisti invisibili che hanno bisogno di far salire i prezzi delle azioni. È l’altra faccia delle statistiche sui disoccupati che ascoltiamo ogni giorno nei telegiornali. Possono occupare solo un paio di righe sui giornali ma dietro ci sono tragedie umane. Thierry è un uomo normale – normale nonostante la sconfitta subita negli ultimi anni – in una situazione disumana: sono passati 20 mesi da quando la sua azienda lo ha licenziato e ora è obbligato ad accettare qualsiasi lavoro gli venga proposto. Anche quando questo posto di lavoro lo costringe in una situazione moralmente inaccettabile, cosa altro potrebbe fare? Diventare complice di un sistema spietato o lasciarlo e ritornare ad una vita instabile? Questo è il cuore del film. Il posto di un uomo nel sistema.
Lei segue Thierry per un lungo periodo prima che riesca a trovare un lavoro.
Si, era importante avere tempo a sufficienza per mostrare Thierry nella sua condizione umiliante, conseguenza del lungo periodo di disoccupazione. Il suo appuntamento all’ufficio di collocamento, la consulente della banca che gli consiglia di vendere la casa, il colloquio di lavoro via skype, etc… Tutti, ognuno a proprio modo, anche senza scegliere di volerlo, sono vittime della violenza di questo mondo, del nostro mondo. E il tempo che noi utilizziamo per osservarli, ci permette di capire che Thierry non ha altra scelta che accettare questo nuovo lavoro.
Si è rifiutato di ritrarre questi professionisti in maniera caustica come spesso ci vengono proposti.
Questo perché le persone che ho incontrato non erano caricature. Non ho incontrato nessun cowboy che si vantasse del suo piccolo potere. Ho conosciuto invece uomini e donne molto piacevoli, il cui compito era di fermare persone che rubavano nei negozi in cui lavoravano. Ho anche aggiunto qualcosa che non è mai accaduto nel supermercato dove ho girato, cioè che i manager addetti alla sicurezza potevano essere licenziati anche solo per un’inezia e che non venissero poi sostituiti per ridurre il numero dei dipendenti e incrementare il profitto.
È una storia inventata o una vicenda di cui aveva sentito parlare?
Avevo sentito parlare di una vicenda simile tempo fa in un documentario, avevo archiviato la storia per utilizzarla in un secondo momento. Una cosa è per un imprenditore fare soldi. Un’altra cosa è abusare psicologicamente e fisicamente dei propri dipendenti per il profitto. Il lavoro è diventato un lusso, come l’acqua e le compagnie ultimamente detengono un’enorme quantità di potere. Se una compagnia è sana, lo scambio tra i dipendenti è armonioso. Ma se la compagnia è gestita come una dittatura che brandisce un’arma nucleare, gli impiegati sono considerati poco più che carne da macello. A quel punto cosa rimane della loro dignità, su questo ho voluto indagare.