La frusta schiocca sulla schiena, colpo dopo colpo: lacera e uccide la carne, fa piangere l’anima. Il padrone bianco, impersonato da Michael Fassbender, fustiga la schiava nera, Lupita Nyong’o, premiata con l’Oscar come Miglior Attrice Non Protagonista, in una delle più crudeli scene di 12 Anni Schiavo.
Una storia vera, come è vero il sole che scotta i lunghissimi campi di cotone del sud degli States ogni giorno, come l’acqua quando si ha sete, come le urla che si alzano altissime in luoghi ameni, quieti come possono esserlo fattorie e rimesse per i cavalli. Una storia autentica incastrata in un’altra, quella di Solomon Northup (interpretato dal candidato Oscar come protagonista Chiwetel Ejiofor), talentuoso violinista di colore che da libero cittadino dello Stato di New York diventa schiavo, dopo essere stato rapito nel 1841. Da qui, la sua personale odissea che lo accumuna a tanti sventurati nei decenni che hanno preceduto la guerra di secessione e l’abolizione della schiavitù ad opera di Abramo Lincoln.
La pellicola diretta da Steve McQueen (di origini britanniche), prodotta da Brad Pitt e tratta dalle memorie di Solomon scritte nel 1853, si è meritata la statuetta per il Miglior Film, come era nelle previsioni. Probabilmente, dal canto suo, aggiunge poco a quello che già sappiamo (o possiamo immaginare) sullo schiavismo americano, ma ha sicuramento il non indifferente pregio di confermare la linea dura contro qualsiasi forma di oppressione. Fa quindi piacere sapere che l’Academy, sensibile a tematiche sociali, anche questa volta si sia schierata e abbia dato un segnale netto in opposizione allo schiavismo che, al giorno d’oggi, è ancora presente in diversi Stati del Mondo (tra cui India, alla quale spetta il triste primato, e Cina); secondo le ultime stime dell’Ong australiana Walk Free sono trenta milioni le persone che in tutto il Globo vivono in condizioni di schiavitù.
E’ lapalissiano che una pellicola cinematografica, da sola, non possa risvegliare le coscienze, ma va sottolineato come 12 Anni Schiavo sia il primo lungometraggio così apertamente contro lo schiavismo ad essere stato premiato. Non è già questo un risveglio di coscienza? Forse si, in una nazione come gli Usa dove la schiavitù e il problema razziale sono ancora ferite aperte, e non troppo lontane nel tempo: si pensi alle rivolte di Harlem negli anni Sessanta e alle successive e recenti proteste. Quindi, a ben vedere, i suoi tre oscar sono da considerarsi altrettante frustate alla presunta e ridicola superiorità di una o più etnie sulle altre.
Tommaso Montagna