Fresco vincitore del David di Donatello come Miglior Documentario, è oggi al cinema S Is For Stanley, la straordinaria e incredibile storia di Emilio D’Alessandro, autista personale di Stanley Kubrick. Una Amicizia che ha attraversato trent’anni di vita, costruito meticolosamente quattro capolavori della storia del cinema e unito due persone, apparentemente opposte che hanno trovato lontano da casa il proprio compagno di viaggio ideale. E un viaggio nel tempo è anche il documentario che mostra le interviste – separate – ad Emilio d’Alessandro ed a sua moglie Janette. Aneddoti e ricordi che i due (Emilio nel suo garage e Janette nel salotto casalingo) raccontano con nostalgia ed emozione.
Il film, diretto da Alex Infascelli, è tratto dal libro Stanley Kubrick e Me (edito da Il Saggiatore) scritto da Filippo Ulivieri, che ha anche scritto la sceneggiatura della pellicola insieme al regista e a Vincenzo Scuccimarra. Universalmente riconosciuto come uno dei principali studiosi del cinema di Kubrick, Filippo Ulivieri è il fondatore di ArchivioKubrick.it, il più grande sito italiano sul leggendario e geniale cineasta statunitense. Per esplorare questo meraviglioso e toccante documentario – lo abbiamo visto in anteprima e ve lo consigliamo caldamente – ho deciso di intervistarlo.
Filippo, tu lo sai, sin dal 2000, sono uno dei fedelissimi seguaci del tuo ArchivioKubrick.it. Che significato ha per te arrivare al cinema con questo film? Cosa hai provato quando avete vinto il David di Donatello?
In effetti, se colleghiamo il David di Donatello all’indietro con ArchivioKubrick, un sito internet nato ai tempi dell’università per puro divertimento e curiosità verso il nuovo mezzo, sembra un’evoluzione gigantesca. La tentazione di unire i puntini e individuare un percorso funziona solo ex post, però: anche se sono sempre stato fermamente convinto che da cosa nasca cosa, non avevo la minima idea di seguire una traiettoria se non quella data dallo scegliere progetti proprio per divertimento e curiosità. La passione per il cinema di Stanley Kubrick mi ha portato a scrivere un libro, a partecipare a conferenze con studiosi di cinema da tutto il mondo, e ora a sceneggiare un film che ha vinto il David. Messa così dà una bella sensazione, sì, ma non c’era niente di pianificato.
Al centro di tutto c’è l’incredibile e straordinaria figura di Emilio d’Alessandro. Tu come lo hai conosciuto? Cos’è che ti ha fatto decidere che la sua storia meritava di essere raccontata in un libro prima e in un documentario poi?
Sono stato contattato all’indirizzo email di ArchivioKubrick da un amico di Emilio: dopo anni era riuscito a vincere la sua riservatezza e a convincerlo a raccontare la sua storia, e aveva pensato a me come persona adatta a scriverla. È piuttosto buffo ora ripensare a quelle prime email: all’epoca, di Emilio non si sapeva nulla, se non che era stato l’autista di Kubrick; mi pare di aver pensato che tutto sommato non ci fosse granché da dire… Poi è bastato incontrare Emilio, ascoltarlo cinque minuti, entrare nel suo garage pieno di cimeli e lettere autografe per capire di avere di fronte una straordinaria, incredibile favola, sospesa tra mito e quotidianità. Letteralmente incredibile: per un anno intero, mentre intervistavo Emilio e scrivevo la prima stesura del libro, continuavo bizzarramente a non credere a questa storia, tanto era improbabile, sconosciuta e bellissima. Quando Alex Infascelli mi ha scritto (sempre alla solita email di ArchivioKubrick) per dirmi quanto il libro lo avesse coinvolto emotivamente e mi ha proposto di trasformarlo in un film, ero sicuro che la storia fosse in buone mani perché anche lui aveva capito dove sta il fulcro, il cuore di questo racconto. Sono anche particolarmente contento che Alex abbia da subito voluto fare un documentario invece che un adattamento di fiction: anche lui appena ha conosciuto Emilio ha pensato che la sua voce e la sua presenza fossero fondamentali.
Attraverso i ricordi di Emilio, scopriamo una versione privata e inedita di Stanley Kubrick. Il regista professionista, che curava ogni dettaglio, ossessivo, meticoloso. Ma anche l’uomo, estremamente insicuro, fragile e sensibile. Chi era Kubrick? Chi era Stanley?
È un contrasto interessante, sono d’accordo. Lo stesso libro giocava con il gap tra la percezione comune di Kubrick e le rivelazioni di Emilio. Kubrick è stato raccontato tantissime volte da attori, sceneggiatori e tecnici cinematografici, che sono stati con lui il tempo di uno o due film, in location o sui set. Emilio per la prima volta ci racconta Stanley, l’uomo con cui ha vissuto venti ore al giorno per trent’anni, in studio, negli uffici e nelle stanze private. La frattura che ne risulta è davvero sorprendente.
Dal 1970 in poi, dalla chiamata del Taxi per il set di Arancia Meccanica, ad Eyes Wide Shut. Attraverso il lavoro, tra Stanley ed Emilio è nato un rapporto straordinario. Fatta di bigliettini (letti dalla fantastica voce di Pedicini), note, ma anche di gesti silenziosi, puntuali. Dal film, tra i due sembra esserci stata un’intesa innata. Tu come descriveresti la loro amicizia?
Ho strutturato il racconto del libro sulla falsariga di una storia d’amore e anche Alex ne parla proprio in questi termini. Non c’è una parola per descrivere quello che Emilio è stato per Stanley, o almeno io non l’ho ancora trovata. Mario DeSantis di Radio Capital l’ha definito il totem emotivo di Kubrick. Alex ora usa il termine menshkeit, la misura dello spazio che c’è in una stretta di mano. Sono entrambe descrizioni che mi piacciono molto.
Nel film, tema fondamentale è La Fiducia. Totale. Quella che un uomo così selvaggio (e diffidente) come Kubrick ha deciso di riporre in D’Alessandro. In questo senso, Emilio è stato un privilegiato o una vittima? Con il passare del tempo, le richieste di Kubrick, di ogni tipo, diventarono ingombranti…
Questo andrebbe chiesto a Emilio. Gliel’ho chiesto, in effetti. E la sua risposta, così neutra e sbrigativa, è stata la guida per bilanciare questo aspetto della loro relazione nella scrittura tanto del libro che del film: “Era il mio lavoro” mi ha risposto semplicemente. Durante il montaggio del film, nelle scene in cui Stanley chiede e chiede e chiede, ed Emilio si barcamena come può, Alex se ne è uscito con una battuta perfetta: Janette è l’unica persona sana di mente qui dentro! D’altra parte in ogni grande storia d’amore l’ossessione e la follia sono elementi essenziali.
Quando Emilio è tornato per un periodo a Cassino, ha provato un vuoto. Come si può descrivere quella sensazione? In quel momento, era davvero solo Stanley che rappresentava il senso della sua vita?
Emilio è tornato a Cassino per riposarsi nel 1994. Quando ne parla dice che era la sua pensione. Forse all’inizio era convinto che fosse davvero la fine della sua vita con Stanley, poi si deve essere accorto, piuttosto alla svelta credo, che sentiva la mancanza del lavoro fatto per lui, di passare del tempo insieme. Janette l’aveva capito subito che si trattava solo di una tregua momentanea, ci scommetto!
Allo stesso modo, la professionalità e l’umanità di Emilio nel tempo sono diventate una dipendenza per Stanley. Ho trovato sconvolgente il fatto che senza la presenza di D’Alessandro, Kubrick non riuscisse più a girare, a trovare la forza. Come se quell’ometto italiano di Cassino fosse la sua più importante fonte di energia. Eyes Wide Shut, in questo senso, è proprio una celebrazione di questo legame…
Per me la cosa più sconvolgente è che durante i due anni di assenza di Emilio, Stanley non ha fatto entrare nessuno nelle stanze di casa che usava come uffici di produzione. Per due anni nessuno, davvero nessuno, ha avuto il permesso di entrarci, anche solo per pulire. Quando Emilio torna nel 1996, metà pian terreno della villa è invaso dalle ragnatele e l’appartamento privato di Stanley e Christiane al secondo piano trabocca di libri e documenti. Solo Emilio ha potuto mettere in ordine gli uffici di produzione di Kubrick e la casa di Stanley. E durante le riprese di Eyes Wide Shut, si vede quanto l’affetto sia reciproco, con Stanley che lo vuole sempre attorno senza un vero motivo, con la comparsata come edicolante, l’insegna del Caffè da Emilio, Janette invitata sul set in modo che stesse con Emilio come mai era stato possibile. Come ha detto una volta Alex, è la luna di miele dei due innamorati che si ritrovano.
Nel documentario si parla di lavoro, di arte, ma soprattutto di vita. Quella di Emilio è particolarmente toccante. Penso alle sue rinunce personali (nessuna ferie, nessun compleanno, nessuna visita agli anziani genitori, sempre a disposizione) e al tempo sottratto ai figli, penso alla moglie trascurata, penso al figlio Jon che sognava di correre in macchina prima di rinunciare per un grave incidente. Come ha vissuto la famiglia D’Alessandro la totale dedizione di Emilio nei confronti di un genio del cinema?
Un’altra delle cose straordinarie delle persone che fanno parte di questa storia – Emilio, Janette, Marisa e Jon – è il considerare Stanley Kubrick una persona normale. Se gli dici che Kubrick era un genio ti guardano perplessi, oppure ridono. Non hanno mai subito alcuna fascinazione per il divo, alcuna curiosità morbosa per la celebrità. E non solo perché Emilio non sa nulla di cinema: a Janette piace moltissimo guardare film e Marisa è una fotografa, eppure Kubrick per tutti loro è stato semplicemente un bravo datore di lavoro che aveva successo nel suo campo. Niente di mitologico, niente di misterioso. Lo trovo molto sano.
Nel finale del film, dopo che Emilio torna davanti alla tenuta di Kubrick fermandosi fuori dal cancello, vediamo tutti gli oggetti dei vari set che Emilio conserva ancora a Cassino. Ciascuno ha un significato particolare. Sono reperti e simboli di un Cinema e di un’Amicizia che in questo mondo frenetico e sempre più virtuale, stanno cambiando profondamente. Sei d’accordo?
C’è una grande nostalgia nel finale del film, ed è giusto che ci sia. Stanley non c’è più, e con lui se ne è andato tutto il mondo che Emilio conosceva. Per me era importante che i lettori del libro e gli spettatori del film provassero un po’ la sensazione di perdita, di distruzione e rovina che ha provato Emilio. “Tutto si è sfasciato” mi diceva con un groppo in gola durante le nostre interviste. Questa malinconia e questa nostalgia, sempre forti per Emilio dopo oltre quindici anni, per me erano uno dei cardini della storia.
Tra i momenti più emozionanti c’è il party d’addio ad Emilio che Stanley gli fece a sorpresa. Io ora faccio come Shining, ovvero chiudo questa intervista con una foto, quella che li vede insieme in quel party. Tu cosa vedi in quella immagine?
Grande idea! Quindi i lettori inizino a canticchiare Midnight, the Stars and You, mentre io dico che, a partire da Lolita in poi, cioè da quando Kubrick era diventato Kubrick, non esistono foto di lui che si mette in posa con qualcuno per farsi una foto ricordo. In quarant’anni l’ha fatto solo per Emilio.
Intervista di Giacomo Aricò