Due film cult degli anni ’80, stroncati dalla critica più severa e tradizionale ma fin da subito amati dal pubblico più popolare, compiono proprio quest’anno 30 anni. Era infatti il 1986 quando vennero girate queste due pellicole simbolo di un decennio dove l’eccesso e l’oltrepassare le regole era ormai la nuova norma. Le vhs in questione sono Top Gun di Tony Scott, nonché trampolino di lancio di un giovane Tom Cruise, al fianco di Kelly McGillis, e 9 Settimane e ½ di Adrian Lyne, con Kim Basinger e Mickey Rourke.
Storie d’amore estreme che girano attorno al fascino di due bellissime donne bionde, dal capello riccio e un po’ selvaggio, mosso dalla tipica permanente di quei anni. Sensualità scoperta, in modo esplicito, senza veli, ma mai volgare. Le rispettive colonne sonore, Take my Breath Away dei Berlin e You Can Leave Your Hat On di Joe Cocker, sono rimaste tutt’oggi nell’immaginario comune come perfetto sottofondo di notti consumate e bollenti. Ma come hanno segnato gli anni ’80? E come oggi vediamo quelle stesse pellicole considerate all’epoca eccessive o troppo esplicite?
Top Gun ha sicuramente appoggiato la propaganda militarista americana, esaltando la figura di pilota come eroe di guerra e della patria. Lo stesso cantante Bryan Adams rifiutò di cedere i diritti di una sua canzone per non volersi sentire coinvolto. Il dovere civile viene imbastito con tanto di amicizia, lealtà, dovere e amore, apparentemente impossibile. Il giovane Maverick (Tom Cruise) diventa il nuovo punto di riferimento dei giovani degli anni ’80: “volere è uguale a potere”, l’uomo self-made che rimane leale a se stesso, agli affetti più cari e alla società, e che ottiene sempre quello che vuole nel lavoro, nell’amore, nella vita.
È la versione americana del tipico paninaro milanese: jeans a vita alta, t-shirt bianca, occhiali a goccia Ray Ban e giubbotto da aviatore. Bisogna, però, rendere merito anche al regista, perché nonostante qualche piccolo difetto, le azioni in volo (come quello rovesciato) lasciano lo spettatore senza fiato, proprio perché ben girata, di grande effetto nonostante all’epoca la tecnologia non poteva ancora sopperire ai tradizionali meccanismi di regia.
Scena cult di Top Gun, che oggi rimane, è il lungo bacio (e l’appena accennata notte d’amore) tra i due protagonisti, che si consuma nella penombra, con un gioco di silhouette che si sfiorano a rallenty, che vuole raccontare l’intimità dell’atto-attimo. I Berlin accompagnano ogni singolo movimento. La colonna sonora meriterà una nomination agli Oscar.
Più veloce e volontariamente provocante è, invece, la scena di 9 Settimane e ½, dove Kim Basinger organizza uno spogliarello sulle note di You Can Leave your hat On. Ancora una volta il gioco di luci, l’ombra e la silhouette del corpo femminile. Sensualità esplicita che vuole far incuriosire il suo uomo. Compiace. Lei si muove a ritmo delle note di Joe Cocker per accompagnare lo striptease di un tailleur anni ’80 e una sottoveste color madreperla.
Altrettanto peccaminosa la scena del cibo, davanti al frigorifero. Un gioco intimo e malizioso di tatto, gusto e sapori. Un mix tra ironia e sensualità. A occhi chiusi lei assaggia una serie di cibi: ciliegie candite, pomodorini, fragole, champagne, latte, peperoncino, gelatina, un (italianissimo) fusillo e il miele. La regia si è concentrata nell’inquadrare lui mentre si crogiola divertito, gustando ciò che vede (il suo vero cibo è lo spettacolo), alternando a macro sulla bocca di lei compiaciuta, divertita e spesso vogliosa. Un giochino che fa forza sui doppi sensi del godimento. Queste e altre scene vennero censurate, condannate dalla critica, ritenute troppo esplicite.
Partendo dal film, ripensiamo alla figura della donna oggi. Trent’anni dopo la donna viene vista e percepita sempre di più come oggetto del desiderio, in balia delle voglie dell’uomo. Per molti, 9 Settimane e ½ rimane una semplice pellicola vagamente educativa sul “come fare”, ormai nemmeno tanto trasgressiva, dietro cui si cela una riflessione sociale sul rapporto uomo-donna e su come questo deve svilupparsi per chiamarsi “amore”.
Selene Oliva