Dal 26 ottobre al 20 novembre al Teatro Argentina di Roma, in prima nazionale, arriva Ragazzi di Vita, lo spettacolo diretto da Massimo Popolizio dal romanzo scritto da Pier Paolo Pasolini uscito nel 1955 dando scandalo con le sue storie di povertà e disperazione. A guidare un cast composto da diciotto giovani attori è un grande Lino Guanciale. La drammaturgia è di Emanuele Trevi.
Il Riccetto, Agnolo, il Begalone, Alvaro, e ancora il Caciotta, lo Spudorato, Amerigo: sono alcuni dei ragazzi delle borgate di periferia che parlano in romanesco e trascorrono le loro giornate alla ricerca di qualche lira e nuovi passatempi. Sono i “ragazzi” di Pasolini nati orfani d’innocenza che agguantano la vita a piene mani, riversando per le strade le loro vitalità emarginate.
«Libero dalle costrizioni di una vera e propria trama, in bilico tra il romanzo e la raccolta di racconti indipendenti l’uno dall’altro, il testo sembra consistere in una serie di scene nelle quali il senso del comico e quello del tragico non si oppongono ma si trasformano – annota Emanuele Trevi – in queste scene prevalgono una marcata gestualità e il parlato romanesco, o meglio quella singolare invenzione verbale, di gusto espressionista e non neorealistico, che Pasolini definiva una lingua inventata, artificiale. Non è insomma la lingua in cui parlano i «ragazzi di vita», ma la loro lingua».
Sul palcoscenico una coralità di voci, 18 ragazzi a comporre il vasto repertorio di personaggi, quasi un paesaggio antropologico, con continue sovrapposizioni di spregiudicatezza e pudore, violenza e bontà, brutalità e dolcezza, ma anche ironia e divertimento, per un viaggio alla ricerca del “furore” da rappresentare: la candida, cinica, disperata vitalità di una generazione intenta ad assecondare il “naturale istinto della sopravvivenza”.
A guidarli in questo affresco, dove le vicende si alternano suddivise in episodi e archi temporali, è la regia di Massimo Popolizio che ci porta “dentro” le giornate dei giovani sottoproletari con uno “sguardo panoramico”. Racconti di vite con cui ci restituisce la generosità e la violenza, il comico, il tragico, il grottesco di uno sciame umano che dai palazzoni delle periferie si sposta verso il centro. Dal Fontanone a Piazza di Spagna, dal Tiburtino a Centocelle, dalle acque del fiume Tevere ai bagni del Lido di Ostia, un itinerario picaresco che diventa un “set di scene”, frammenti di storie in continuo cambiamento che ritraggono una Roma che non c’è più, dove forse si rintraccia il senso dell’estraneità dei nostri tempi.
“Ragazzi di Vita è un libro estremamente difficile da mettere in scena – spiega Massimo Popolizio – in quanto non ha una sua storia, ma è composto da episodi intercambiabili. Ho cercato di dar vita ad uno spettacolo corale in cui gli attori vengono proiettati in situazioni che si passano da testimone a testimone, e in cui i vari pezzi sono assemblati da un furore collettivo che fa da collante allo svolgersi della storia”. Per il regista questa drammaturgia non ha una base psicologica, bensì realistica: “ci sono figure molto forti che parlano con piccole battute, rimandando a un certo modo di dire e un certo modo di essere di alcuni personaggi di una determinata Roma che sarebbe assurdo replicare nello stesso modo emotivamente forte dei film di Pasolini, perché quelle facce, quei ragazzi e quelle situazioni non esistono più”.
Su tutti, a fare da tessuto connettivo tra le storie, la figura di un “narratore” che si aggira come uno “straniero” in visita a rendere possibili e visibili tutte le scene, un pensiero che diventa corpo e dice molto sul nostro presente attraverso l’interpretazione di Lino Guanciale. Una presenza sospesa che, quando cala nelle storie, racconta e ascolta le vicende dei ragazzi che non si accorgono di lui, perché vivono in un altro livello della realtà, ma quando iniziano a parlare e agire, è lui stesso ad osservarli come uno spettacolo. È questo lo sguardo panoramico, la coscienza della totalità al contrario dei ragazzi che vivono imbottigliati nella contingenza più immediata.
Ragazzi di Vita riversa in scena un affresco di storie al servizio di una realtà che racconta le vicende di questi ragazzi e il loro modo di stare al mondo. Un modo libero da ogni vincolo sociale e culturale: “puro”, come l’acqua del Tevere in cui il Riccetto si tuffa per salvare una rondine; “spontaneo”, come l’incontro con la prostituta Nadia sul lido di Ostia, e “perverso”, come le imprese vissute all’estremo da Alvaro oppure dal Begalone, o ancora da Spudarato e il Caciotta, tutti abbandonati in svaghi dissennati, vagabondaggi e ruberie; “furente”, come una rissa familiare o come il patetico incontro con un omosessuale; e “tragico”, come le morti di Amerigo e Genesio, che portano via la brutalità della vita conservando la volontà di vivere dei “ragazzi” di Pasolini, la purezza in tutto il loro essere.