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La Morte Corre Sul Fiume, il film degli opposti di Charles Laughton

A sessant’uno anni dall’uscita al cinema, la Cineteca di Bologna riporta da oggi in sala – in versione restaurata – La Morte Corre Sul Fiume, la pellicola (l’unica) diretta da Charles Laughton tratta dall’omonimo romanzo di Davis Grubb e adattata per il grande schermo da James Agee e lo stesso Laughton. La storia, fotografata da Stanley Cortez, fu interpretata da Robert Mitchum, Shelley Winters, Lillian Gish, Peter Graves, Billy Chapin, Sally Jane Bruce, Evelyn Varden.


Capolavoro segreto del cinema americano, fonte di ispirazione per Scorsese, Malick e mille altri, La Morte Corre Sul Fiume è una fiaba gotica vista dagli occhi di due bambini. Favola oscura, fotografata in un bianco e nero espressionista e visionario, che regala a Robert Mitchum uno dei più grandi personaggi della sua carriera, quello del sinistro predicatore che incombe come un orco sui due piccoli protagonisti indifesi.

Un film unico e irripetibile, considerato tale fin dal suo apparire (così la giudicava Truffaut nella sua pronta e acuta recensione), come se fosse destino che lo stesso Laughton non avrebbe più osato sfidare tanta perfezione. Un film, che come nessun altro ha il passo dell’infanzia e in cui la cosa più straordinaria è proprio l’arcano, meraviglioso disegno dei personaggi. Fiaba e thriller, bianco e nero, luci ed ombre, il bene contro il male. Un film di opposti inconciliabili, come quelle parole – love, hate (amore e odio) – che il predicatore ha tatuato sul dorso delle dita. Una delle (tante) immagini indimenticabili di questo capolavoro senza tempo.

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Il romanzo The Night of the Hunter, pubblicato nel 1953, è l’opera prima di Davis Grubb, nato nel 1919 sulle sponde dell’Ohio nello stato della Virginia Occidentale, una regione montagnosa popolata da coltivatori poveri, al tempo stesso sudista – per il clima, i paesaggi, l’accento, i rapporti sociali, l’odio nei confronti dello Stato e il gusto dei predicatori ambulanti – e antischiavista, avendo aderito alla causa nordista al momento della Guerra di Secessione. David Grubb conosceva bene il paese per averci vagabondato; ha situato la sua storia ai tempi della Grande Depressione, e le ha assegnato per personaggio principale un ragazzino di dieci anni – l’età che aveva egli stesso all’epoca della Depressione.

Ad adattare il romanzo per il grande schermo fu James Agee, anch’esso della stessa generazione (nato nel 1910) e delle stessa patria appalachiana (proviene da Knoxville, su un sottoaffluente dell’Ohio) di Grubb. Tra i più grandi critici cinematografici del tempo, Agee realizzò con La Morte Corre Sul Fiume la sua ultima grande sceneggiatura (morì di infarto nel 1955).

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Alla regia ci andò l’attore Charles Laughton, che lasciò la parte del protagonista a Robert Mitchum. Inoltre Laughton, per accorciare il film, effettuò dei tagli nei dialoghi di Agee (molto fedeli al romanzo) ed aggiunse – in modo spiazzante per il pubblico che non sa come reagire – anche diversi aspetti ironici-comici che nel romanzo non erano presenti.

A tal proposito, Jacques Goimard, in Cinéma l’Avant-Scène (n. 202, del 15 febbraio 1978), scrisse: “alla fine risultò un film ben poco teatrale, dove il testo ha meno importanza delle immagini, influenzate dallo stesso Davis Grubb, che aveva studiato pittura ed eseguito una serie di disegni per concretizzare i propri sogni”.

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La principale originalità de La Morte Corre sul Fiume di Davis Grubb è quella di avere ricostruito la storia in un modo molto più sistematico, molto più vicino al mondo dell’infanzia. Una delle mani del pastore Harry Powell si chiama Love e l’altra Hate: un bambino è come queste mani, sa solo amare o odiare, non conosce i sentimenti intermedi; non può comprendere che questo padre o questa madre che adorava fino ad un istante prima, sia divenuto all’improvviso così detestabile.

Gli si prospetta un’ipotesi: non è la stessa persona, è avvenuta una sostituzione. Questo romanzo familiare è dappertutto nel film, dove il vero padre, Ben Harper, ha un doppio diabolico, Harry Powell, e dove la madre legittima, Willa Harper, ha un doppio angelico, Rachel Cooper.

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Nel film, c’è contraddizione tra la visione degli adulti e la visione dei bambini. L’unità, sempre citando Jacques Goimard, è stata data a livello plastico, un vero colpo di genio di Laughton: “è la mansarda nella quale Judy Harper affronta Harry Powell a dare il tono: con la sua nudità, con la sua geometria, molto teatrale, essa diventa un luogo irreale dove gli scontri più violenti rimanderanno esclusivamente all’universo dell’incubo”.

Le scenografie di ispirazione gotica ed espressionista evocano anche l’universo scandinavo e quello di Dreyer in particolare. Gli interni (ricostruiti in studio) hanno in comune una qualità composita di irrealtà – o di surrealtà – che dà al film la sua bizzarra coerenza.

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Nel film di Laughton tutti gli elementi narrativi del film appaiono come delle false piste. Dove siamo? Dov’è il buono, il cattivo? Dov’è il crimine? Per Marguerite Duras, il film “diventa senza moralità, cessa di essere la favola classica di cinquant’anni di cinema americano. Non c’è un epilogo imposto, non abbiamo più alcuna indicazione sulla strada che il film prenderà”.

La voce della pellicola è costantemente in movimento, oscillando dal realismo all’espressionismo, dall’orrore alla farsa, dalla minaccia alla speranza, dall’amore all’odio, in una complessa mescolanza che sembra, in realtà, rappresentare il diffuso stato d’animo della società americana dell’epoca.

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Una instabile e disturbante mescolanza di elementi contrapposti che portarono il pubblico dell’epoca a non uscire entusiaste dalla sala dopo aver visto il film. Tentare di fare un’analisi razionale-oggettiva della storia è impossibile. Ci sono infatti diverse chiavi di lettura ed altrettanti sistemi simbolici rivelatori di quelli che potrebbero essere il proposito e il senso del film, al di là del suo intrigo di thriller orrorifico.

Per Charles Tatum Jr., quello di Laughton “è in realtà, nella sua essenza, un film noir, un film crepuscolare che trascina lo spettatore in una notte fantasmatica popolata dal più terribile degli incubi: quello in cui si vede realizzarsi la morte del padre e il suo corollario, la fine dell’infanzia”.

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La Morte Corre Sul Fiume è una favola ma anche un thriller, un film che rappresenta in maniera realistica un periodo storico (la depressione degli anni Trenta in America, caratterizzata da una devastante povertà) ma anche un racconto che possiede l’irrealtà e il mistero del mito. Ma allo stesso tempo, usando le parole di Mario Sesti a concludere, “si tratta di un apologo morale, pedagogico, ispirato e toccante, in cui il cupo puritanesimo del personaggio di Mitchum e l’amore evangelico di Lilian Gish, lottando per la conquista di due bambini, illustrano il conflitto insanabile di due valori inconciliabili: l’odio e l’amore”.

“La Morte Corre Sul Fiume è un’opera decifrabile e al tempo stesso ineffabile, autenticamente americana, su un sottofondo universale: un’isola e una tappa, un accidente e una casualità, una evidenza e una sfida”.

Robert Benayoun

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