Sarà al cinema dal 26 gennaio Les Ogres, il film diretto da Léa Fehner e interpretato da Adéle Haenel, Marc Barbé, Franҫois Fehner, Marion Bouvarel, Inès Fehner, Lola Dueñas. La pellicola è candidata nelle categorie Miglior Film, Miglior Regia e Migliore Sceneggiatura ai prestigiosi premi Lumières del cinema francese.
Quelli della compagnia Davaï Théâtre – una turbolenta tribù di artisti nella quale il lavoro, i legami familiari, l’amore e l’amicizia si mescolano con veemenza, scavalcando i confini tra la finzione del palcoscenico e la vita reale – vanno di città in città, con una tenda in spalla e il loro spettacolo a tracolla. E mettono in scena Cechov.
Nelle nostre vite portano il sogno e il disordine. Sono degli orchi, dei giganti e ne hanno mangiato di teatro e di chilometri. Ma l’imminente arrivo di un bambino e il ritorno di un ex amante faranno rivivere le ferite che si pensava fossero ormai dimenticate. La festa non può che cominciare.
Di seguito, vi presentiamo un estratto dell’intervista rilasciata da Léa Fehner.
Com’è nata l’idea del film?
Sono cresciuta con il teatro viaggiante, di cui parla il mio film. Negli anni ’90 i miei genitori hanno intrapreso quest’avventura con una dozzina di camper, una tenda, una truppa variegata e stravagante e hanno fatto il giro della Francia con i loro spettacoli (…). Volevo fare un film gioioso e solare, ma felice insieme con insolenza e durezza. Ho voluto filmare questi uomini e queste donne che aboliscono il confine tra teatro e vita per vivere in maniera più radicale, per vivere con ritmi un po’ più frenetici (…). Non sono interessata al culmine del successo di una compagnia, ma piuttosto a ciò che l’età potrebbe fare per questa compagnia. Io non descrivo il periodo infantile del loro desiderio, ma quando il desiderio freme per restare dentro di loro, quando bisogna provocarlo affinché resti in vita…
Les Ogres – Gli Orchi. Un nome che si adatta bene ai vostri personaggi!
Questo titolo è stato come una spina dorsale nella nostra scrittura, per non lasciarci andare alla superficialità, per non farci sedurre dalla vitalità dei nostri personaggi. Abbiamo voluto parlare di una voglia di vivere frizzante e poderosa. Ma era indispensabile non nascondere l’aspetto della mostruosità o della violenza che risiedeva in questo desiderio. I nostri personaggi sono orchi di vita in grado di mangiare gli altri e occupare il loro posto! Ma questo è anche quello che può diventare interessante: far vedere degli esseri potenti e divertenti, indegni e incoerenti, ma amorevoli. Dare spazio all’ambiguità e all’ambivalenza. In qualche modo, parlare di orchi è anche rendersi conto che il problema dell’eccesso ha tanto a che fare con il teatro itinerante ma anche con l’intimità delle famiglie: il modo in cui alcuni occupano tutto lo spazio, il modo in cui l’amore può essere divorato…
È vero che oltre all’aspetto specifico del teatro itinerante, il film è innanzitutto un film sul collettivo e sulla famiglia?
Assolutamente. Qui tutte le generazioni si mescolano. I bambini formano un insieme selvaggio e libero, i giovani adulti hanno a che fare con il loro desiderio di responsabilità. E questo per non parlare dei padri che hanno molti limiti e prendono tutto il centro della scena, delle madri che sono a loro volta sublimi o sottomesse … Ci si ama e ci si fa del male. È forse questa la grande bellezza e il grande dolore delle famiglie: amarsi e non sapere fare altrimenti che farsi del male. Dunque il film parla di questo, sì, ma non solo dei legami di sangue. Perché qui la famiglia è quella che viene scelta, con cui ci s’incontra e con cui si lavora. Alla base dello spirito della troupe c’è un’utopia collettiva che va al di là del quadro di famiglia, che solleva la questione dell’amore nel senso più ampio. Detto questo, famiglia o troupe, ci son delle domande: il gruppo mi fa rinunciare alla mia libertà? O al contrario mi rende più forte e quindi più in grado di esercitare questa libertà?
La compagnia recita un testo di Cechov. Perché proprio lui?
In primo luogo perché i testi che i miei personaggi hanno scelto sono delle farse. Questo non è banale, le persone del teatro itinerante hanno veramente a cuore la riduzione dello spazio di intimidazione tra l’opera e il pubblico. Quindi c’è, con questi testi, la forma di cabaret, è come se ci fosse un invito allegro a scoprire questo grande autore, senza aver paura. E poi c’è stata, all’inizio della scrittura di questa sceneggiatura, la scoperta di Platonov, con un’opera giovanile. Questo personaggio ci ha influenzato tantissimo per la scrittura di Mr. Déloyal. Platonov è una sorta di fiamma sovversiva di libertà, difficile da vivere per gli altri e per se stesso. Lui vuole tutto, vuole troppo, come se non avesse mai lasciato questo stato di gioventù febbrile e insonne. C’è una casualità che non è presente nelle opere mature di Cechov. Uno humor (…). L’altro aspetto di Cechov che mi piace particolarmente è che parla di comunità. I personaggi si trascinano l’un l’altro, vanno avanti insieme, espongono le loro contraddizioni. Non stiamo parlando qui di eroe che sfida solo gli uomini o le divinità. Si parla di vita quotidiana, di lavoro, degli esclusi, dei tristi, degli incerti, degli appassionati. Ogni personaggio cerca il suo margine di libertà all’interno di un gruppo, muovendosi o escludendosi autonomamente. Pertanto è vero che quella di Cechov, rimane per molti una musichetta intima con un po’ di dolce e di leggermente amaro. Io trovo, piuttosto, molta aria, un’enorme violenza e tutta in una volta una tenerezza selvaggia. Un amore folle per i suoi personaggi. Per la loro violenza, la loro stupidità, la loro bellezza, i loro eccessi e le loro paure. Per me quest’amore è come un’etica, un principio del lavoro: dare amore agli altri, pur rimanendo lucidi senza pietà. Questa è la sfida del cinema che io voglio riuscire a fare.
Cechov, la tenda, la compagnia, questo mondo. Ai suoi occhi sono là dentro come una sorta di nostalgia?
Assolutamente no. Questi uomini e donne sono creature del momento, totalmente impegnate fisicamente, emotivamente, intellettualmente, nel presente. Non esiste in essi la fine del mondo. I bambini continueranno sempre a nascere, i vecchi amanti ad amarsi, la tenda ad essere montata sotto altri cieli. È anche questo il teatro itinerante: preferire la condivisione al prestigio, il contatto all’eccellenza. Quindi sì, sono esseri che lottano in una società che pesa senza sosta i suoi valori di successo, di perfezione, di ordine e di ripiego su se stessa. Ma per me lottare contro il trionfale ritorno di questi valori non è passato, piuttosto si tratta di un’attualità interessante. Allo stesso tempo, quando dico questo, sembra terribilmente serio. Qui, se c’è la lotta, c’è attraverso il riso, c’è senza prendersi sul serio. E non è praticabile la loro utopia, si romperanno sempre i denti. Ma se non vitale, la loro avventura è viva…