Diretto da Gianni Di Capua, esce oggi al cinema Piani Paralleli che, oltre ad essere una Suite di composizioni originali per Quartetto Jazz e Orchestra D’Archi, è un film concerto che celebra i 50 anni di età e i 30 di carriera di uno dei più stimati compositori Jazz del panorama contemporaneo: Giovanni Mazzarino.
Il film racconta le cinque intense giornate di registrazione nella Fazioli Concert Hall, adiacente alla fabbrica dei pianoforti Fazioli a Sacile in provincia di Pordenone, insieme agli straordinari compagni di viaggio che Giovanni Mazzarino ha fortemente voluto con sé e con cui ha già lungamente collaborato nel corso della sua carriera: il contrabbassista e compositore statunitense Steve Swallow, il batterista Adam Nussbaum, il trombettista Fabrizio Bosso e Paolo Silvestri, cui il compositore ha affidato l’arrangiamento e la direzione dell’Accademia D’Archi Arrigoni.
Il musicista s’intrattiene, così, in un dialogo intimo con la propria musica, la poetica che la informa e con gli amici chiamati ad interpretala. Le discussioni, l’amicizia, le paure, la consapevolezza di un momento unico e straordinario, la trasformazione delle partiture in materia sonora viva e vibrante, fino al concerto finale a porte chiuse, sono riprese circolarmente con tre telecamere disposte intorno ai musicisti, nel buio ovattato denso di creatività della Fazioli Concert Hall.
Vi presentiamo ora un estratto dell’intervista rilasciata da Giovanni Mazzarino.
Parallelismo in musica… ce lo spieghi meglio
La musica è una creatura della Natura e non può essere prigioniera di un genere o di uno stile; semmai le estetiche possono essere diverse, poiché esse stesse immagine speculare dei tempi e dei luoghi in cui l’attività artistica viene creata, pensata, prodotta. La musica è una sola, i suoi meccanismi, le logiche, le fraseologiche di base restano identiche. Con questo titolo, Piani Paralleli, ho voluto sintetizzare il concetto del parallelismo in musica come esplorazione delle dimensioni musicali, in senso non euclideo (ossia piani che non si incontrano), ma di coesistenza di queste realtà su piani che occupano contemporaneamente lo “spazio musicale” in più dimensioni. L’Artista, il Musicista, il Compositore vive all’interno di questo spazio musicale, elaborando una serie infinita di combinazioni musicali, ritmiche, melodiche. In musica non si inventa, si scopre! Si scoprono le diverse forme, i diversi piani, le diverse dimensioni che insieme costituiscono le fondamenta della Musica. Piani Paralleli è la summa delle mie esplorazioni musicali dopo tanti anni di viaggi sonori: dal barocco al romanticismo, da Bach al Be Bop, dal Musical di Broadway alla musica sudamericana d’autore, dalla musica folk e popolare del Mediterraneo alla musica contemporanea, dai Beatles a Domenico Modugno, dai Pink Floyd all’Opera Lirica… Sento spesso colleghi musicisti che parlano di “noi classici” e “voi jazzisti”, ma io credo che, se fossero vivi tra noi i Grandi Compositori del passato, essi stessi si ribellerebbero a queste gratuite distinzioni. In questo ultimo mio lavoro convivono tante estetiche. I musicisti che conoscono la musica nella sua complessità e nella sua ricchezza, non possono non affermare che la Musica è una sola.
In questo viaggio ha portato con sé compagni di un certo valore… Con quale criterio li ha scelti?
Piani Paralleli è sostanzialmente una suite per pianoforte e orchestra, con l’ausilio del basso, batteria e tromba. Tutta la musica è originale, composta appositamente per questo progetto. Ho coinvolto musicisti compatibili con la mia idea musicale, come faccio sempre: compatibilità umana e musicale. Tutte persone “naturalmente normali”… che cosa intendo con questa strana definizione? Intendo persone attente al dettaglio, profondi conoscitori della musica. “Normali” significa essere opportuni quando si suona, con la possibilità di essere duttili e paralleli. Ahimè sono in pochi. Per potermi esprimere al meglio, come uomo e come musicista, cerco affinità, cerco la consonanza, non la dissonanza.
In che cosa questo film-concerto è diverso da altri film realizzati sul Jazz?
Innanzitutto in questo film non sono altri a parlare di me, ma sono io che parlo di me stesso. Desidero raccontarmi e fuggo dall’idea che altri dicano davanti a una telecamera delle cose di me, seppur belle… Ritengo che il livello sia veramente elevato nella ripresa, nel gusto per l’immagine, nella raffinatezza e attenzione nel montaggio e nel racconto. Di rilievo la scelta del regista di portare in scena tre telecamere disposte intorno all’orchestra, con riprese circolari di grande suggestione… lo spettatore è lì, dentro l’orchestra, accanto a me e agli altri musicisti… vive con noi la performance. È un modo unico e speciale di godere la musica al cinema, più coinvolgente e assolutamente spettacolare. Quella di Piani Parallei è una musica fortemente visionaria, narrativa, che vuole suggerire delle immagini, raccontare delle storie e Gianni Di Capua è un regista-musicologo di lunghissima esperienza che ha saputo valorizzare la musica, la vera protagonista di quest’opera.
In questo film lei esprime in modo abbastanza netto le sue idee sulla musica, sul ruolo del compositore, sul Jazz. Una frase che colpisce è “la vera innovazione è saper attendere il momento creativo”… lei come lo riconosce?
Anni fa trascorsi una notte intera a parlare con Dizzy Gillespie, uno dei teorici del be bop; tra le tante domande, gli chiesi se in quel momento si stessero rendendo conto della grande innovazione musicale di cui erano protagonisti. La sua risposta mi sorprese: «Se noi avessimo, anche solo per un minuto, pensato che fosse nuova, sarebbe stata già vecchia». Innovare non è un atto di volontà, ma un atto creativo. Anche l’attesa è innovazione. Io sono cresciuto e la musica insieme a me: insieme abbiamo sempre atteso l’atto creativo successivo per delineare e approfondire. I momenti creativi sono momenti di rinnovamento. L’attesa è un contenitore del rinnovamento! Il musicista, secondo me, si confronta in momenti distinti : l’invenzione e l’essere scienziato. L’inventore delle idee è colui che comanda; appena l’idea è “inventata” interviene lo scienziato che approfondisce, delinea e sistematizza questa idea.
Ha attraversato con la sua musica gli ultimi 30 anni di Jazz insieme ai più stimati protagonisti del Jazz internazionale: quali sono le tappe di questa evoluzione e in che modo definisce la sua musica di oggi?
La mia musica si è evoluta di pari passo alla mia crescita umana, alla mia consapevolezza. Ho cominciato a suonare quando avevo 5 anni, non mi definisco di certo un enfant prodige. Ho goduto del lusso di crescere seguendo le normali tappe di un musicista ed è stata una grande esperienza, perché cominci a conoscerti poco a poco, e impari e gestire i tuoi limiti. Il miglioramento consiste nel capire e gestire i propri limiti. Insomma, come musicista non mi sono portato addosso etichette, da enfant prodige o da fenomeno, e questo è stato un bene, perché non ho mai dovuto né dimostrare, né continuare a farlo per non cadere nell’oblio, luogo ahimé frequentatissimo da molti prodigi musicali… Ho suonato veramente tanto in tutto il mondo, recentemente ho provato a fare un conto… 3000 concerti… credo addirittura di sbagliarmi per difetto, ma ho ascoltato ancora di più. Oggi la mia musica è la summa di tutto ciò che di musicale ho ascoltato e pensato e di tutte le influenze ricevute dai musicisti con cui ho collaborato. Quella che scrivo oggi la definisco musica colta del ‘900 perché ha tutte le connotazioni della musica classico-romantica su cui si innestano le più disparate influenze della musica afroamericana.
Che cosa la ispira?
La vita che vivo, le persone che frequento, le bellezze del mondo, la luce, il sole e i sorrisi. Le cattiverie non mi ispirano, né tanto meno la bruttezza.
Il Jazz, il cinema d’autore… sono linguaggi che molti considerano riservati agli “addetti ai lavori”. Lei pensa che il Jazz sia una musica per “pochi eletti”?
Se i palinsesti televisivi e radiofonici, ma anche i palinsesti culturali in generale, fossero basati sulla diffusione della vera grande musica e della bellezza, tutto questo diventerebbe successo e addirittura business: il business della bellezza. Purtroppo nel Paese più bello del mondo si preferisce promuovere la cultura della bruttezza. Il problema della scarsa conoscenza del Jazz, così come di altri tipi di musica colta, o del cinema d’autore, sta nell’invisibilità. Essendo invisibile, il Jazz è sconosciuto ai più. In Italia c’è stata una precisa e sistematica conventio ad escludendum per il Jazz, quello vero, a fronte invece di una promozione – da parte della politica e di certa critica schierata- del grande bluff, quello del cosiddetto Jazz di “ricerca”. È chiaro che se la bellezza assurgesse a sistema e venisse coltivata, insegnata, promossa con politiche e pratiche virtuose, non solo il Jazz e altre arti sarebbero conosciute, apprezzate e ricercate dal pubblico, ma assisteremmo anche e finalmente a una selezione degli attori in campo, con la legittima e doverosa esclusione di gran parte di quelli che sostengono di suonare Jazz con l’aggravante della parola “ricerca”. Il mio amico Giovanni Amore sostiene che risulta piuttosto complesso trovare un gatto nero in una stanza buia, bendati… soprattutto quando il gatto non c’è…