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Spiriti e settima arte nel Planetarium di Rebecca Zlotowski

Natalie Portman torna sul grande schermo in Planetarium, diretto da Rebecca Zlotowski, nelle sale dal 13 aprile dopo l’anteprima alla 73. Mostra del Cinema di Venezia.  Al fianco della Portman, Lily-Rose Depp (figlia d’arte di Johnny Depp e Vanessa Paradis), Emmanuel Salinger e Louis Garrel.


Fine anni 30. Laura (Natalie Portman) e Kate Barlow (Lily-Rose Depp) sono due sorelle americane che praticano sedute spiritiche. A Parigi, durante il loro tour europeo, incontrano André Korben (Emmanuel Salinger), un rinomato produttore cinematografico francese. Visionario e controverso, Korben è il proprietario di uno dei più grandi studios della Francia, dove produce film utilizzando costose tecniche d’avanguardia.

Benché scettico, Korben decide per gioco di sottoporsi ad una seduta spiritica privata con le due ragazze. Profondamente colpito da questa esperienza, offre alle sorelle ospitalità e stipula con loro un contratto allo scopo di compiere un ambizioso esperimento: dirigere il primo vero film sull’esistenza dei fantasmi. Ma Laura capisce ben presto che vi sono ragioni ben più oscure che legano Korben a loro.

Natalie Portman

Natalie Portman

La regista Rebecca Zlotowski ha rilasciato un’intervista. Ve ne proponiamo qui sotto un estratto.

Qual è l’origine del film?

E’ sempre difficile rispondere a questa domanda senza abbracciare tutti i tropismi che designano un soggetto come questo, che va ad accompagnarli per tre, quattro anni come accade con un progetto cinematografico. Il clima politico e critico che ci circonda, ci sommerge; il desiderio di filmare un’attrice straniera che si trasferisce in Francia; rivendicare personaggi dal destino glorioso e una voglia molto forte di credere nella finzione… Ho sentito la necessità di trattare il mondo insidioso, crepuscolare, nel quale siamo entrati, con gli strumenti romanzeschi. Ho pensato a questa frase di Duras così inquietante quando ci si pensa: “Non si sa mai quando si è sul punto di cambiare”. E dall’altro lato ho avuto il desiderio di spingermi verso un lavoro particolare con gli attori. Le riprese dei miei primi due film sono durate poco, e questo mi ha lasciato affamata: sentivo il bisogno di lavorare su quel lato, di mettere gli attori in trance fisica, esplorare il mondo dei riti e delle possessioni, le manifestazioni fisiche ma senza arrivare ai riti girati da Rouch in Les Maitres Fous e, anche se questa pista esiste nel film, non è solo che una piccola parte.

È questa pista che l’ha portata verso lo spiritismo praticato dalle sorelle Barlow?

Sì. Mi sono subito interessata alla storia delle sorelle Fox, tre sorelle medium americane che hanno inventato lo spiritismo alla fine del 19esimo secolo, grande mito americano. Il loro successo è stato considerevole, portando alla nascita e al prosperare di una dottrina con centinaia di migliaia di adepti in tutto il mondo, fino ai circoli intellettuali dell’Europa… Un episodio poco conosciuto ma che mi ha affascinato: l’assunzione, per un anno, da parte di un ricco banchiere, di una delle sorelle per incarnare lo spirito della moglie defunta. Questa storia mi è piaciuta. E’ stato un punto di partenza da thriller, fortemente hitchcockiano.

Emmanuel Salinger

Emmanuel Salinger

Lei ha abbandonato il mondo della finanza per quello del cinema: perché?

Volevo fare un film francese, nella mia lingua, ed ho immaginato un tour europeo di due sorelle. Ho fatto del banchiere un produttore, poiché il mondo del cinema mi è sembrato cento volte più intimo di quello della finanza rispetto al tema dello spiritismo. Fantasmi, spettri, scenografie… Anche l’ambientazione è cambiata… Il periodo vittoriano, il 19esimo secolo non mi convincevano: ho spostato la storia negli anni ’30, con l’idea che questo produttore fosse ebreo e vittima di una campagna calunniatrice che ne avrebbe favorito la caduta.. Eravamo appena usciti dal triste episodio di Dieudonné e del suo antisemitismo che mi ha colpito particolarmente, tra gli altri razzismi.

È così che è arrivata un’altra ispirazione storica, il produttore Bernard Natan, consegnato nel 1942 dal governo francese agli occupanti nazisti?

Esattamente. Non ho avuto bisogno di cercare di inventarmi un produttore la cui caduta fosse prevista: era già esistito. Bernard Natan, ricco produttore di origine romena, naturalizzato francese, veterano di guerra, partito da niente, che aveva rilevato Pathé Cinema nel 1929, era stato vittima di una campagna antisemita che lo aveva costretto a dimettersi dalle sue funzioni, prima di essere destituito dalla sua nazionalità francese per poi essere consegnato dalle autorità francesi a Auschwitz via Drancy. Una sorta di affare Dreyfus del cinema insomma, ma meno conosciuto. Natan aveva pertanto acquistato e creato lo studio della rue Francoeur – l’attuale ubicazione della Fémis, la scuola di cinema dove ho studiato per quattro anni… Mai nessuna targa, nessuna menzione della sua esistenza – dimenticanza poi riparata – e nessuno o quasi lo conosceva nonostante avesse prodotto film per dieci anni, importato il cinema sonoro in Francia e segnato profondamente la produzione francese. Mi sono interessata a questo destino tragico con il desiderio di parlarne, di fare del cinema uno strumento di giustizia.

Lily-Rose Depp

Lily-Rose Depp

Lei cerca di stabilire un parallelismo tra il periodo che stiamo attraversando e la fine degli anni ’30?

No, non direttamente. Non sono né economista né studiosa di storia e il parallelismo mi sembrerebbe naif, frettoloso e impreciso. Sicuramente il populismo è in forte ascesa e noi ci troviamo in un clima di regressione colossale su tutti i livelli, morale, religioso e politico: ma le due epoche non si sovrappongono. E poi, che l’immaginario degli anni trenta ricordi la nostra contemporaneità è un eco, una rima che non mi infastidisce, fintato che porti a riflettere. Gli anni trenta portano, in termini di fiction, una certa minaccia propria al thriller. Per dire le cose in modo semplice, sappiamo che sta per accadere qualcosa di catastrofico, che la catastrofe è vicina, imminente: è un potente strumento di narrazione, di senso e di atmosfera che mi è stato utile per parlare d’oggi.

Cosa intende quando parla di inconscio del film?

Fin dall’inizio mi sono fidata del mio inconscio durante il lavoro di creazione del film, dalla scrittura alla realizzazione: questo non significa che ho improvvisato – si improvvisa poco nei miei film. Ma ho voluto fidarmi del potere di suggestione dei personaggi, nel lavoro minuzioso attorno alle scenografie, ai costumi che è stato enorme in questo film. Ho rifiutato la dimostrazione, il lato enfatico, volontario, che possono essere frequenti nei film in costume. Per esempio, la scena del fantasma del padre che ritorna (interpretato da mio padre…) parlando in yiddish in mezzo ai soldati in tenuta da prima guerra mondiale, l’abbiamo finita di scrivere pochi minuti prima dell’inizio delle riprese. Robin mi aveva letto, la mattina stessa, un passaggio di Salammbo di Flaubert, che torna più volte nel film in momenti inaspettati e che porta finalmente una questione che invade tutto il film (la promiscuità degli uomini in guerra, ma anche l’avvicinarsi della guerra creano dei legami fortissimi, “l’ante-guerra”): abbiamo avuto bisogno di un anno di lavoro per emergere la verità dal film.

Louis Garrel

Louis Garrel

La sceneggiatura racconta la storia di un produttore che cerca di rilanciare il cinema usando nuove tecniche. Planetarium è girato nel momento in cui il cinema stesso passa da un’epoca all’altra: dalla pellicola al digitale. Anche lì, c’è una sovrapposizione.

Sì, nel clima del pettegolezzo e della maldicenza in cui ci troviamo – in cui le cospirazioni sono divenute la matrice di ogni pensiero, c’è una grande crisi di diffidenza verso l’immagine. Sicuramente ciò è legato anche alla rivoluzione antropologica del digitale. Quanto vale un’immagine filmata in digitale, rispetto alla pellicola, se non garantisce più che ciò che è successo davanti alla telecamera sia successo realmente? Tutto non può che essere un sogno, un’apparizione. Il formato digitale dunque riattualizza bene le fantasie, e se può portarci alla crisi dell’immagine, a questa grande idea di un complotto, dell’inganno, mi sono persuasa che fossero questi racconti a dover essere reinventati con i nostri mezzi. La diffamazione, le cospirazioni, l’omofobia, i razzismo, l’antisemitismo, hanno la stessa energia potente della finzione, dello storytelling, al servizio del maligno. All’opposto del cinema: finzione radiosa, gloriosa, positiva, in cui il falso, l’artifizio, creano del vero. È per questo che al di là della sua banalità oggi, l’uso del digitale nel film aveva senso.

Il film sembra abbracciare delle tematiche e dei temi cosi diversi e forti che lo spiritismo, la sorellanza, il ritratto di una donna potente, la costruzione di una famiglia, il crescendo degli estremismi e del nazismo in Europa, il cinema degli anni trenta… Come ha a lavorato per legare fra loto tutte queste tematiche? Era la volontà cosciente di aprire così tante porte?

Lo prendo come un complimento: è sempre difficile mantenere un equilibrio nel mettere insieme in meno di due ore un’idea nata dalla complessità e dall’ambiguità di un mondo immaginario – là dove le serie televisive stanno per diventare dei rivali, proponendo alternative dalle durate opportune. Questa diversità di temi è stata esplorata attraverso diversi livelli di lettura – razionale, poetico, politico – senza mai pensare se lo spettatore sia portato o meno a credere a ciò che vede sullo schermo. Razionale: come due giovani spiriti americani aiutati da un produttore francese a filmare dei fantasmi, senza capire che sarà artefice stesso della propria caduta. Politico: il destino di questa famiglia improvvisata, costruita dal caso, della solitudine in un mondo che si inasprisce nel pieno della crescita degli estremismi. Poetico: come il cinema apre l’unica porta possibile, come un credo che ci permette di sopravvivere ai nostri fantasmi… La fede, la speranza, i sentimenti tra i personaggi, il cinema e le politiche sono stati intimamente mescolati. I fantasmi, gli spiriti evocati da Korben nel film, rispondono per esempio a quel principio. È stata soprattutto la possibilità, spero, di far emergere un vero progetto estetico, plastico, e romanzesco.

Kate e Laura

Kate e Laura

Se lei dovesse collocare il film in un genere, quale sarebbe?

Un film d’avventura. Ci viene chiesto spesso di scegliere sia in campo critico che in campo narrativo, tra il naturalismo e la stilizzazione. Non voglio decidere. Penso molto a quello che diceva Breton du Douanier Rousseau: il realismo magico. Alla fine di questo lungo tragitto percorso dagli eroi in questo romanzo, mi piacerebbe che il film raccontasse che non siamo mai consci dei nostri stessi segreti.

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