Accolto trionfalmente in concorso al 69. Festival di Cannes, arriva nelle sale dall’8 giugno, Sieranevada di Cristi Puiu, colui che è considerato l’iniziatore del “nuovo cinema rumeno”.
Il film apre allo spettatore le porte dell’appartamento di Bucarest dove – tre giorni dopo l’attentato contro Charlie Hebdo e quaranta dopo la morte del padre – Lary (Mimi Branescu) trascorre la domenica con tutta la famiglia, riunita per commemorare il defunto. Non tutto, però, va come previsto: tra segreti e bugie, costumi di carnevale sbagliati e nostalgie del regime, sbornie da smaltire e complotti da sventare, Lary si vedrà costretto ad affrontare le proprie paure, a riconsiderare il proprio posto all’interno della famiglia. E a dire la sua parte di verità.
Vi presentiamo un estratto dell’intervista rilasciata da Cristi Puiu.
I ricordi, la memoria dei fatti sono il fulcro della sua storia. Una memoria che costituisce e impone una società, come quella che vediamo nel film?
Nel momento in cui prendiamo coscienza di noi stessi, verso l’età di dieci anni, siamo già istruiti e formattati dalla storia del nostro paese. Vediamo le cose in un modo che è già molto classificato ed etichettato. Tutto questo ci conduce verso una forma di inerzia. Siamo pronti ad accettare una verità che presumiamo acquisita e chiudiamo gli occhi di fronte ad eventuali errori. È il prezzo che paghiamo per entrare a far parte delle comunità, per essere accettati all’interno di essa.
È di fondamentale importanza per i suoi personaggi appartenere a una comunità?
È una questione di struttura. Come le api, come le formiche, gli esseri umani vivono in comunità. Se in una comunità viene a mancare un elemento, bisogna riconfigurare l’intera struttura, ricomporre tutto l’insieme. Quando qualcuno muore, tutto cambia all’interno di quelle piccole comunità che sono i componenti di una stessa famiglia. Si scatena una lotta di potere e si cerca di capire chi alla fine conquisterà questa autorità. E ciascuno propone il proprio programma, come in una campagna elettorale.
I suoi personaggi non si limitano a confrontarsi, ad argomentare le loro ragioni o a lanciarsi in invettive: si interessano anche molto al cibo, un elemento molto importante del film!
È vero e tuttavia nessuno alla fine riesce a mangiare! Il pasto è una ritualizzazione delle cose, è comprensibile da parte di tutte le culture poiché è presente in tutte le culture. C’è la tavola, attorno alla quale ci si ritrova. Per semplificare, ricorrere al rito della tavola è una tradizione, ma genera anche un falso sentimento di solidarietà. Non si tratta soltanto del cibo in sé, di tutto quello di cui il corpo ha bisogno, che nel film diventa urgente poiché finiscono con l’avere tutti una grande fame. No, diventa urgente anche per mostrare che quando gli individui hanno fame dimenticano tutti ogni sentimento di solidarietà e di amicizia. Detto questo, ho mostrato il film ad alcuni amici ed erano molto contenti perché dopo averlo visto avevano voglia di mangiare.
I rituali scandiscono il suo film (preparazione del pasto, benedizione del pope…). Qual è la loro funzione?
Hanno lo scopo di permettere al dibattito di vertere su argomenti che non hanno niente a che vedere con la commemorazione di un defunto, come con quella di mio padre. In Romania, funziona così: c’è la sepoltura e poi ci si riunisce tutti insieme. In seguito, ci si ritrova nuovamente quaranta giorni dopo per la prima commemorazione del defunto. Poi, un anno dopo il funerale, ci si riunisce ancora e infine un’ultima volta sette anni più tardi. Per quanto riguarda mio padre, abbiamo fatto la commemorazione dei sette anni nel 2014.
Perché ha situato praticamente tutto il film in un unico luogo, in un appartamento?
Viviamo in un mondo di cui conosciamo i confini. Questo significa che il film può essere concepito soltanto come un mondo a sé, geograficamente definito. Per questo motivo lo spazio è circoscritto e la vicenda si svolge tra le mura di un appartamento. Quello spazio è il riflesso dell’immagine speculare del nostro mondo su una scala ridotta. Il giorno come la notte: in quella casa ci sono entrambi. Ci sono alcune stanze più buie, ce ne sono altre più luminose, arredate in modo diverso come se fossero dei paesaggi differenti. È impossibile evadere da quell’appartamento come è impossibile evadere dal pianeta. Quindi è necessario prendere consapevolezza ed entrare in tutte le stanze, posizionarsi davanti all’Altro. Dunque, la cosa più importante è l’incontro con l’Altro. C’è un senso in tutto questo. Creare un mondo alveolare senza comunicazione in cui ciascun individuo è rinchiuso nella sua bolla, senza sapere che esistono gli altri, senza andare verso l’incontro con gli altri… La scelta tra queste due alternative può cambiare ogni cosa.
Come dobbiamo interpretare il titolo che ha scelto, Sieranevada?
È nato da una riflessione che ho fatto: «Perché il titolo di un film cambia a seconda del paese in cui viene distribuito?». È una consuetudine che mi irrita profondamente. All’inizio, avevo deciso di trovare io il titolo per ciascuna lingua. Poi però ho optato per un titolo che non può essere cambiato. Quello che è interessante in «Sieranevada» è che di solito è un nome composto da due parole distinte: Sierra Nevada. Ma in rumeno invece è un’unica parola, scritta come la sia pronuncia. Ho alterato il titolo mettendo una sola «r» apposta perché la gente potesse dirmi «ma non si scrive così!». E allora come si scrive? E in giapponese come si scrive? E in georgiano? È un ragionamento completamente idiota. Mi fa pensare all’espressione «il diavolo è un contabile».
Quindi l’alterazione voluta nell’ortografia di «Sieranevada» è un gioco?
Il fatto che il diavolo sia un contabile, che alcune persone abbiano l’abitudine di contabilizzare tutto e durante le riprese siano venute a dirmi «non si scrive così», mi piaceva. Ma in fondo la verità è che non ha alcuna importanza. Eppure il nostro cervello ha un tale bisogno di attribuire un senso che tende a creare significato anche laddove il significato non c’è, dove non c’è nulla. Nella realtà può andare bene qualunque titolo, ma questo non lo si può dire, quindi bisogna trovare un titolo e per questo film il titolo è questo! È una questione personale, è il titolo che è apparso nella mia mente. Come mai è apparso questo? È un mistero e le cose misteriose sono tante.
Effettivamente il titolo evoca un senso di mistero e di avventura. L’avventura esistenziale di questi irrequieti personaggi.
Sì, era fondamentale che rimandasse a un luogo, a uno spazio. È stato l’unico elemento razionale che mi ha spinto ad andare avanti nella mia lunga ricerca del titolo. Il titolo Sieranevada possiede delle risonanze western, malgrado non esista un film western famoso intitolato così. Evoca anche la neve e una lingua diversa, lo spagnolo, con la musicalità che possiede. Sieranevada suona bene. Fa pensare a catene montuose innevate che assomigliano ai palazzi di appartamenti comunisti, alle serie concatenate di blocchi di pietra chiara. Per il poster rumeno del film, ho fotografato quelle serie di condomini di pietra collegati tra loro, quel mondo alveolare con quelle finestre, che simboleggiano anche la mancanza di fiducia della comunità dei rumeni.