Esce oggi nelle sale L’Infanzia di un Capo, opera prima di Brady Corbet, interpretato da Bérénice Bejo, Robert Pattinson, Stacy Martin, Liam Cunnnigham e Tom Sweet. Il film, ha vinto il Premio Leone del Futuro – Premio Venezia Opera Prima ‘Luigi De Laurentiis’ e il Premio Orizzonti per la Miglior Regia alla 72a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Girato in 35mm, liberamente ispirato all’omonimo racconto del 1939 di Jean-Paul Sartre e al romanzo del 1965 Il Mago di John Fowles, il film racconta – in quattro atti – la vita del piccolo Prescott (Tom Sweet) nella villa vicino a Parigi dov’è alloggiato con i suoi genitori. Il papà (Liam Cunningham), consigliere del presidente americano Wilson, lavora alle stressanti trattative di definizione di quello che diventerà il famigerato trattato di Versailles, appena dopo la fine della prima guerra mondiale. La formazione del carattere di Prescott è segnata da una precoce tensione intellettuale e da frequenti scatti d’ira, che portano inevitabilmente alla continua ridefinizione degli equilibri di potere familiare.
Fra le storture e le ipocrisie sociali che avvelenano una coscienza al suo nascere e la preparano ad una sorte colpevole, si consuma lo scontro tra lo sterile e vigliacco mondo maschile dei diplomatici, e dell’ambiguo amico di famiglia Charles Marker (Robert Pattinson), e quello femminile, al contrario vitale e vibrante, che circonda il bambino con le tre profondamente diverse figure di donna che gestiscono la sua vita: l’austera e religiosa mamma (Bérénice Bejo), la dolce governante (Yolande Moreau) e la fragile insegnante di francese (Stacy Martin). In quella che è una lampante e allo stesso delicata simbologia del male del fascismo che di lì a poco infetterà l’Europa, la consapevolezza auto-affettiva di Prescott si addensa inesorabilmente nel nichilismo del primo dopoguerra, che alzerà appunto il sipario alle tirannie del XX° secolo.
Brady Corbet è sempre stato interessato al periodo storico tra le due guerre: “questo momento ha definito la politica estera come la conosciamo oggi, in America e in gran parte del resto del mondo” spiega. Il regista si è posto l’obiettivo di fare un film poetico sulla politica e sulle dinamiche interpersonali, ma non un film politico in senso stretto: “volevo fare un film che avesse possibilmente anche una forza ribelle un po’ punk rock, perché credo fermamente a quanto diceva Marlon Brando: in ogni scena, bisogna trovare il cliché, e fare il contrario”.
L’Infanzia di un Capo è però un film basato su eventi inquietanti della vita reale: “in definitiva, è la storia di un’infanzia da cui emergerà un dittatore. Mussolini stesso da bambino era solito gettare le rocce ai parrocchiani quando uscivano dalla messa, pare abbia anche mutilato uno dei suoi insegnanti e un compagno di studi. Per me è diventato il volto del peggior tipo di machismo e misoginia. Ha rovinato la vita di ogni donna che ha toccato”. Corbet non voleva fare l’ennesimo film su Hitler o Mussolini: “volevo piuttosto costruire un’allegoria o una lettura poetica della Storia, nella quale i personaggi mantenessero uno spazio vuoto a sufficienza perché lo spettatore lo potesse riempire con i propri fantasmi storici”.
La storia del film si ispira a Sartre, alla sua idea di una personalità ancora acerba che prende coscienza un po’ alla volta del potere che riesce ad esercitare sugli altri, del proprio fascino e del rispetto che riesce ad imporre: per questo è l’infanzia di un capo, di un dominatore, di un despota. La storia gioca con questo lato enigmatico dei bambini, con il fatto che siano come una promessa di qualcosa che non è ancora noto, che non si sappia insomma ancora di che persona adulta si tratterà. Il risultato è molto inquietante. Il film rispetto al racconto prende però “una direzione diversa, ha l’obiettivo ancora più ambizioso di raccontare il XX secolo e l’ascesa di tutti i totalitarismi, causata secondo me per prima cosa dalla ferita insanabile della Prima Guerra Mondiale e dalla sua conclusione a Versailles”.
Ad inspirare Brady Corbet è stato il libro della storica Margaret McMillan sul trattato di Versailles, Peacemakers: The Paris Peace Conference of 1919 and Its Attempt to End War, dove si spiega molto bene come Lloyd George, Georges Clémenceau e Wilson abbiano ridisegnato il mondo: “ho scelto questo libro come base per il mio racconto e ho poi raccolto un numero incalcolabile di informazioni che potessero consentirmi di concepire una sorta di film-labirinto. A quel punto ho letto la novella di Sartre e il romanzo del 1965 Il Mago di John Fowles. Sono poi stato influenzato a livello narrativo anche dal Nouveau Roman, da Marguerite Duras e Alain Robbe-Grillet, la cui tagliente ironia si coglie forse qua e là nel film”.
Una nota finale sulla colonna sonora realizzata da Scott Walker: “ha composto una musica potente e dissonante, che riesce a punteggiare e scandire tutta la storia – conclude Corbet – con la sua spettrale intensità, riesce a calarci fino in fondo nell’atmosfera del film: i suoi suoni stridenti e aggressivi hanno la potenza ipnotica e subliminale degli arsenali simbolici e delle coreografie del totalitarismo, e sembrano anche dei gridi di sofferenza per i demoni di certi momenti storici, i demoni che possono trasformare un bambino in un futuro dittatore”.