Ora che in Brasile è da poco iniziato quello che da tutti è stato ribattezzato il Mondiale dei Mondiali, abbiamo deciso di approfondire il binomio tra cinema e mondiali di calcio. Immediatamente ci è venuto in mente lo splendido documentario Il Mundial Dimenticato – La vera incredibile storia dei Mondiali di Patagonia 1942, un falso documentario del 2011 scritto e diretto da Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni. Il film fu presentato a Venezia e fece poi il giro di tutto il mondo, ricevendo ovunque premi e apprezzamenti. Per chi ama il calcio, un gioiello imperdibile che vi consigliamo caldamente.
Insieme allo scheletro di un certo Guillermo Sandrini, ritrovato insieme ad una macchina da presa in Patagonia, riaffiora l’incredibile storia di un Campionato Mondiale di Calcio che si disputò in Patagonia nel 1942 e che mai fu riconosciuto dagli organi ufficiali dello sport. Tra ricostruzioni, oggetti e testimonianze (tra gli altri gli ex giocatori Roberto Baggio, Gary Lineker, Jorge Valdano e il giornalista Darwin Pastorin), quel Mundial torna alla luce insieme ai sogni e alle speranze di chi ha sempre visto nel calcio un momento di pura felicità.
Per approfondire questo documentario che è diventato ormai un cult per tutti gli appassionati di pallone, abbiamo intervistato uno dei due registi, Lorenzo Garzella.
Per chi ancora non lo sapesse, la prima domanda è: ma c’è stato davvero il Mondiale di Patagonia 1942?
Non importa se il Mondiale in Patagonia ci sia stato davvero oppure no. Quello che per me conta è che io ci credo.
Cosa si prova ad aver realizzato un film così tanto apprezzato in tutto il pianeta?
Il Mundial Dimenticato è un film di nicchia, ma ha la sua nicchia sparsa un po’ in tutto il mondo, questa è una delle maggiori soddisfazioni, insieme al fatto che molto pubblico femminile – che a un primo impatto è recalcitrante di fronte al tema calcistico – ci ha dimostrato di apprezzarlo. È un piccolo film anarchico, indipendente e carsico, scorre sottoterra e via via torna in superficie. Spero continui sempre a scorrere, anche col passare del tempo, mosso dalla sua energia appassionata e vitale, e che torni sempre più spesso a vedere a luce.
Le ricostruzioni storiche sembrano autentiche. Mi viene in mente soprattutto l’album di figurine. Come lo avete realizzato?
Tutto il film è stato fatto lavorando sul confine fra grande passione, lunghe ricerche e mezzi abbastanza ristretti. L’idea era non raggiungere un livello eccessivo di approssimazione, essere accurati almeno quel tanto che potesse servire a tenere lo spettatore “agganciato” alla storia. Per le figurine abbiamo cercato fra molti esempi degli anni 30 e 40, e come riferimento abbiamo scelto quelle che ci sembravano più interessanti, se non ricordo male si trattava di una collezione argentina: giocatori tagliati a mezza coscia e immagini colorate solo parzialmente, a mano. Durante le riprese un fotografo è stato incaricato specificamente di realizzare le immagini di partenza, in piccole sessioni fotografiche a bordo set.
Secondo me Guillermo Sandrini è un eroe, perché testimone di un calcio che forse non c’è più. Sei d’accordo?
Guillermo Sandrini per me rappresenta tante cose. Come tutto nel film è un personaggio sopra-le-righe, quasi una maschera dell’ostinazione visionaria. Ma lo stereotipo ha dei tratti umani che lo rendono un po’ più complesso. In generale è una figura epica e comica allo stesso tempo, e chi conosce me e Filippo non ha difficoltà a riconoscervi una nostra estrema proiezione: magmatico, innamorato della sperimentazione cinematografica, sognatore, indomabile, pasticcione.
In tempi di Guerra, il Conte Otz – nel tuo film – vedeva nel calcio un mezzo di pace. Che cos’è oggi il calcio nel 2014 nel mondo? Porta ancora con sé un messaggio di speranza?
Credo che il calcio – in quanto sport più praticato e seguito del Pianeta – sia soprattutto uno specchio della società. Come tutti i fenomeni globali – dal rock, al cinema alla religione – è soggetto alle patologie della società. Oggi la malattia peggiore è il consumismo sfrenato come negli anni 40 era la propaganda totalitaria. In quanto gioco universale, dall’altro lato, rappresenta una sorta di universo parallelo alla vita quotidiana, e riesce a inglobare ed esaltare aspetti affascinanti dell’essere umano: fantasia, creatività, divertimento, allegria, magia… C’è dentro un po’ di tutto, è imprevedibile e contraddittorio (combina gioco di squadra e narcisismo individuale, sacrificio ed esibizionismo, tecnica e forza fisica, arte e violenza…). Credo che al centro abbia un’anima romantica e invincibile, ben rivestita da svariati strati di immondizia.
Tra le testimonianze nel film c’è anche quella di Roberto Baggio. Venti anni fa esatti ci portò in finale a Usa ’94. Che ricordo hai del Divin Codino e di quel Mondiale americano? (da buon italiano hai rivendicato la Coppa del Mondo vincendo come Miglior Documentario Internazionale alla Mostra Internacional de Cinema de São Paulo!)
Del 1994 i miei ricordi sono molto mediati dal mio lavoro: ho rivisto le immagini più volte per raccontare le vicende nei miei documentari. Se provo a fare lo sforzo di pescare i miei ricordi diretti rivedo giocatori sfatti dal caldo statunitense mentre io mi affannavo a preparare un esame difficile all’università. Con la Nigeria ricordo Bruno Pizzul che già farfugliava amareggiato di valige e aeroporti e fine dell’avventura. L’Italia annaspava. Poi il miracolo, quello che fin da piccolo chiedi al calcio partita dopo partita, e che ti fa assistere fino all’ultimo istante col groppo in gola di speranza anche alle sconfitte più umilianti e agli zero-a-zero più noiosi. Poi mi viene in mente più di tutto la bella partita con la Bulgaria, e le lacrime di Franco Baresi, che all’epoca era il mio eroe (e io ho l’impressione di aver sempre saputo che avrebbe sbagliato il rigore).
A livello di evento, cosa ne pensi di questo mondiale in Brasile? Tu che ci sei stato, come hai vissuto tutti quei momenti di tensione e protesta prima dell’inaugurazione?
Calcio professionistico e politica sudamericana sono due brutte bestie da tenere insieme. Fino a un anno fa avevo l’illusione che il Brasile avrebbe gestito con equilibrio l’occasione sportiva, anche se i brasiliani erano scettici. Adesso il primo impulso, quello da persona matura e razionale, sarebbe mandare tutto a quel paese e neanche accendere il televisore. Poi appena vedo apparire il verde del campo sul teleschermo vince il sortilegio del gioco, e mi dimentico tutto il resto, ahimè.
Cosa ti aspetti dalla nostra Nazionale?
L’Italia mi preoccupa in difesa e non so se abbia davvero la personalità della grande squadra. Ma mi piace che sia una squadra coi piedi buoni, di quelle che provano a giocare e a ragionare. Amo ovviamente Pirlo, e mi aspetto sorprese da Cerci.
A livello di comunicazione media (pay tv, tecnologia HD, Web,…), com’è cambiato il modo di raccontare il pallone? In Brasile molti si ricorderanno ancora del Maracanazo del 1950…
Il modo di raccontare qualsiasi storia è cambiato ed è in continuo cambiamento. Ora che ogni angolo è scrutato e ogni retroscena è svelato la cronaca tende a imporsi sulla narrazione. L’immagine vince sul racconto, la velocità vince sulla profondità, la quantità sulla qualità, e l’informazione fast-food detta la norma dell’ usa-e-getta. Cito Valdano dal nostro film: “oggi che la televisione ci mostra tutto, è molto più difficile trasformare una partita in una leggenda” … Ma credo che i tempi d’oro – in realtà – non siano mai esistiti e che sempre ci saranno isole e modi per raccontare e sognare.
Intervista di Giacomo Aricò