Giorgio Barberio Corsetti incontra William Shakespeare nella tragedia del potere, tra vanità, adulazioni, perfidie, crudeltà, portando sulla scena temi di grande attualità in una combinazione inedita di linguaggi e visioni, con protagonista Ennio Fantastichini. Dal 21 novembre al 10 dicembre al Teatro Argentina, in prima nazionale, debutta Re Lear, un racconto epico dove i padri fraintendono i figli e i figli tradiscono i padri, nuova produzione del Teatro di Roma in sinergia con il Biondo di Palermo.
Il tempo di questo Lear è adesso. Un tempo dove un Re si spoglia del potere nel tentativo disperato di vivere senza responsabilità. Un tradimento della fondamentale dimensione politica alla conquista di una estasi individuale, mentre il mondo privato e pubblico intorno a sé implode: «Lear avviene adesso, nei nostri giorni, in un mondo fluttuante, dove l’economia e la finanza ci spingono da una crisi all’altra, portandoci con loro. È la storia del potere della successione, di padri e figlie, figli e padri. Lear vuole ritrovare la giovinezza perduta, abbandonare le cure del regno, il peso delle responsabilità, poter vagare con i suoi cavalieri da un palazzo all’altro, fare bagordi e occuparsi solo del proprio piacere; per combattere la solitudine e l’approssimarsi della fine si porta dietro un seguito colorato e chiassoso, di dubbia moralità. Questo seguito è rappresentato dal pubblico che fin dall’inizio viene chiamato in causa – racconta Giorgio Barberio Corsetti – Lear vuole essere amato, perché pensa che il sentimento delle figlie sia una garanzia, un investimento che gli permetterà di vivere spensierato una seconda giovinezza. Vuole essere amato perché sta dando via il potere … in realtà si sta alleggerendo per volar via liberi e il potere si diffonderà come una malattia contagiando tutti. È una favola ed è una tragedia di padri e figli. Le situazioni, i luoghi sono simbolici, come arcani maggiori dei Tarocchi, la torre, la tempesta, la capanna. La superficie del racconto è tagliata a colpi netti, come una tela di Fontana».
Composta tra la primavera del 1605 e l’autunno del 1606, Re Lear è un’opera intrisa da una cieca volontà di potere, in cui Shakespeare confida nella speranza che le nuove generazioni possano riscattare il mondo di corruzione e morte che hanno ereditato dai padri. Una tragedia dove si scontrano paternità ed eredità, trasmissione e usurpazione, il passaggio del potere nei suoi più atroci termini essenziali: «Lear ha un carattere violento, rabbioso, che si sfracella contro le porte chiuse dalle figlie. Cordelia è come il padre, non vuol dire fandonie, odia le smancerie, non capisce l’adulazione, diretta e ombrosa. I personaggi si stagliano contro un cielo fosco con tutti i loro difetti e le loro qualità, caratteri che possono solo essere tirati allo spasimo, alle estreme conseguenze. La fedeltà, la lealtà, oppure il tradimento, la doppiezza, sono scolpite nelle figure come la trama stessa della materia in cui sono forgiate. Ancora una volta è una scrittura materica».
Nel corso dello spettacolo il paesaggio si deforma, dalla favola si passa all’incubo, un viaggio verso le tenebre: «chi non ha saputo vedere diventa cieco, chi non ha capito perde la mente, chi ha tradito sprofonda nel tradimento, chi è puro viene trucidato». Così Barberio Corsetti immagina il suo spettacolo diviso in tre parti come il regno di Lear: il dramma delle due famiglie, Lear e Gloucester, fatto di interni in cui il pubblico avrà un ruolo attivo; la tempesta, la fuga, la follia, la natura che si confonde con la mente, tempeste e abissi sono momenti e luoghi fisici e interiori, reali e allucinati, qui la scena perde i contorni della realtà; la guerra che arriva come una battaglia di soldatini, in cui un re dovrebbe essere salvato dalla figlia che ha cacciato, ma perde lasciando al potere la necessità di ricostituirsi intorno ad un nuovo personaggio, «una guerra persa, una disfatta della ragione e del diritto, fino alla morte del Re e della figlia, e la necessità del potere di trovare un nuovo personaggio intorno a cui raggrumarsi».