Il 20 maggio 1908, Centodieci anni fa, nasceva una delle icone del cinema statunitense, ovvero James Stewart. Un attore leggendario che, dopo aver studiato architettura alla Princeton University, si innamorò del teatro. Da Indiana (suo luogo di nascita) a Broadway e da Broadway a Hollywood. Eccezionale interprete, sapeva essere versatile, capace di padroneggiare diversi generi, dal western al thriller, dal drammatico alle commedie per famiglie.
In tutto, venne nominato cinque volte all’Oscar (ne vinse due, il primo nel 1941 per Scandalo a Filadelfia, il secondo alla carriera nel 1985), prendendo parte e lasciando un segno indelebile in pellicole come Harvey, La Vita è Meravigliosa, Nodo alla Gola, La Finestra sul Cortile, La Donna che Visse due Volte, L’Uomo che Sapeva Troppo. Lavorò per registi importanti, fra cui Alfred Hitchcock, John Ford, Billy Wilder, Anthony Mann e Frank Capra.
Mister Smith va a Washington
Fu proprio il “nostro” Frank Capra a lanciarlo, cambiandogli la carriera. Era il 1939 quando lo diresse in Mister Smith va a Washington, film che gli valse una candidatura all’Oscar e che vogliamo ripercorrere oggi per ricordarlo. Una pellicola nata da una storia di Lewis R. Foster che vinse l’Oscar per il soggetto, una satira politica che permise a Capra, grande specchio della società americana, di assorbire e riflettere le tendenze del momento provenienti dal “basso”.
In questo film James Stewart interpreta il protagonista, Mister Smith, ovvero quel personaggio il cui fervore folle e disperato incarna il lato oscuro del dell’idealismo americano. Ma andiamo con ordine. L’ostruzionista del finale di Mister Smith Va a Washington non solo definisce il personaggio attoriale di Stewart, ma aiuta a mettere a fuoco il modo in cui gli americani si sarebbero visti nel dopoguerra. “Il Mister Smith di Stewart è la quintessenza dell’eroe americano: giovane e energico, ingenuo e idealista” come scrisse Al Weisel. È un innocente scagliato in politica da un sistema corrotto che lo crede facile da manipolare, e che viene quasi distrutto nella lotta per ciò che sembra una battaglia persa.
All’epoca dell’uscita del film fioccarono accuse di antipatriottismo per il ritratto che si dava della dilagante corruzione a Washington, e “sebbene oggi numerosi critici considerino i film di Frank Capra sdolcinati e troppo semplicistici – continuò Weisel – a questi sfugge quanto le sue rappresentazioni di vita americana siano in realtà cupe e sovversive”. Come patrono delle cause perse, Stewart – con la faccia da ragazzo, la barba da qualche giorno e la voce arrochita (si dice che l’attore si fece prescrivere da un medico un trattamento al dicloruro di mercurio per le corde vocali!) – incarna il mito nazionale per cui ognuno ha il potere di trasformare il mondo intorno a sé, credendoci fino in fondo.
C’è quasi un accenno di follia nella sua disperazione nel momento in cui i suoi ideali si scontrano con la realtà, un accenno che sarà ancora più marcato ne La Vita è Meravigliosa (1946, sempre di Frank Capra), nella disperata corsa per le vie di Pottersville. Anche in quel film c’era tutto James Stewart, un attore che riempiva d’umanità e ideali i personaggi che interpretava.
La Vita è Meravigliosa
Quel camion a Berlino che investe il Natale e l’umanità intera è una triste immagine del tempo inquieto che stiamo vivendo. Un momento storico molto difficile, in cui stanno venendo a mancare certezze e punti di riferimento. Una situazione storico-economica in cui la politica traballa e il popolo combatte ogni giorno tra maschere di facciata e patemi d’animo. Mai come adesso la festività natalizia deve essere un’occasione per tornare a credere. Nella storia del cinema, nessun film celebra lo spirito vero e autentico di questa festa come La Vita è Meravigliosa, capolavoro girato da Frank Capra nel 1946, settanta anni fa.
La straordinaria storia di George Bailey – interpretato da un immenso e irripetibile James Stewart – un uomo che dedica tutta la sua esistenza al servizio del prossimo sacrificando i suoi sogni, ci insegna quanto sia importante il senso di comunità. Nella piccola e rurale Bedford Falls, George, insieme allo zio paterno, dirige la Bailey Costruzioni e Mutui, una piccola e modesta cooperativa di risparmio fondata dal padre Peter. Si tratta dell’unico ostacolo che si trova davanti lo spregiudicato e odioso capitalista Henry Potter (Lionel Barrymore) che, possedendo la banca, tiene praticamente in pugno da anni la cittadina. Quando il padre muore, George rinuncia al tanto desiderato viaggio in Europa e al sogno di laurearsi per gestire la situazione dell’istituzione insieme allo zio.
Al fianco di George c’è la splendida Mary (Donna Reed), da sempre innamorata di lui, fin da piccina (poetica la sequenza in cui gli sussurra il suo amore nell’orecchio sordo). Quando si ritrovano ad una festa, l’attrazione tra i due è inevitabile e fortissima. Insieme decideranno di sistemare una casa e di sposarsi. Proprio nel giorno del loro matrimonio avviene un’altra sequenza emblematica. La società di Bailey, rimasta senza soldi in contanti, viene assalita da tutti i clienti, alle prese con i diversi guai che la vita presenta loro con costanza. Quando la situazione sembra precipitare, sarà proprio Mary a offrire tutti i soldi del loro viaggio di nozze per accontentare tutti.
Un giorno Potter, che ha l’ambizione di avere il dominio totale della città, arriva al punto di offrire a George un sostanzioso contratto, chiedendogli di fatto di chiudere la sua piccola società. Ma George rifiuta, in nome del padre, e in nome di tutti quei cittadini che Potter sfruttava e piazzava in catapecchie costose. Con l’opera di Bailey, tutti possono tornare invece a coltivare dei piccoli-grandi sogni. A tutti i suoi clienti, George non fornisce solo la sua professione, ma anche tutta la sua umanità, il suo altruismo e la sua generosità.
Diventato padre di quattro bambini, per George le cose si mettono malissimo una vigilia di Natale. Suo zio Billy, incaricato di versare in banca 8.000 dollari necessari per onorare una scadenza di pagamento, per sbadataggine perde di vista il denaro appena prima di consegnarlo all’impiegato. Quella somma, di vitale importanza, finisce nelle mani dell’inqualificabile Potter che, approfittando della sbadataggine dell’uomo, si sente ormai in pugno il controllo totale della città. Quando George viene a sapere dallo zio che i soldi sono spariti, crolla in preda allo sconforto e alla disperazione. Un fatto che significherebbe la chiusura della sua società con il conseguente scandalo pubblico da affrontare. La botta per George è talmente forte che tutte le frustrazioni e i sacrifici della sua vita riemergono implacabili.
Che senso ha avuto tutta la sua esistenza? A cosa gli è servito essere buono, onesto e disponibile con tutti? George perde la testa. Una volta rientrato a casa maltratta verbalmente i suoi famigliari, prima di decidere di farla finita. Decide di togliersi la vita gettandosi in un fiume, ma proprio mentre sta per compiere il gesto ne viene distratto all’ultimo momento da Clarence Oddbody, un angelo inviato da Dio che ha ascoltato le preghiere di tutti coloro che vogliono bene a George.
Clarence si getta nel fiume spingendo George a buttarsi anche lui, ma per metterlo in salvo. Trasportandolo in una realtà parallela e alternativa – come avviene con il fantasma del futuro ne Il Canto di Natale di Charles Dickens – egli mostra a George come sarebbe stato il mondo se lui non fosse mai nato: senza di lui, il fratello Harry, eroe di guerra e salvatore di molte vite umane, sarebbe annegato da bambino; il suo vecchio datore di lavoro, il signor Gower, avrebbe passato la vita in galera per l’avvelenamento accidentale di un bambino, lo zio Billy sarebbe stato internato in manicomio, l’amata moglie Mary sarebbe rimasta zitella, i suoi figli non sarebbero nati, la cittadina di Bedford si sarebbe chiamata Pottersville; la vita di molti abitanti e amici di George sarebbe stata miserabile.
È in quel momento che arriva a comprendere quanto valore e significato abbia avuto la sua esistenza e la sua dedizione al prossimo. Così corre, sotto la neve verso casa, desideroso di riabbracciare i suoi cari. L’ispettore lo aspetta per arrestarlo, ma lui è felicissimo e riabbraccia la sua famiglia. Sarà ancora una volta Mary a salvarlo: la moglie riesce infatti a fare in modo che i suoi amici e tutti i suoi clienti gli diano il denaro necessario per evitare la bancarotta. George è vivo, è salvo. Tutti gli hanno riconosciuto la sua bontà d’animo e il suo altruismo e lo hanno ripagato. Tutti cantano, è Natale.
Quello che riceve George è il “il più grande regalo” che potesse avere, The Greatest Gift, cioè il contenuto dell’omonimo racconto di Philip Van Doren Stern, da cui il film è tratto. I diritti vennero acquistati dal capo della RKO che propose il soggetto a Cary Grant e ne affidò l’adattamento ad altri (fra cui Dalton Trumbo) ma senza crederci troppo. Infine, nel settembre del 1945, lo svendette per 10000 dollari alla nuova compagnia di Capra, la Liberty Films. Il regista non potè contare sull’abituale sceneggiatore Riskin (perché già impegnato) e lavorò al copione con Goodrich e Hackett. A spingere perché il film si realizzasse fu lo stesso James Stewart, interprete di George.
Il 15 aprile del ’46 le riprese hanno inizio e terminano a luglio. Per la cittadina di Bedford Falls, Capra non badò a spese facendo costruire uno dei più grandi set mai utilizzati a Hollywood fino ad allora, su un’area di 16000 metri quadrati, dove si piantano persino alberi veri. E 300 tonnellate di neve sintetica (ad opera, pare, dell’esperto chimico Frank Capra) riempirono la sequenza fantastica di Natale. Il budget totale ammontava a tre milioni di dollari, ma al botteghino non si coprirono neanche le spese, nonostante le cinque nomination agli Oscar.
La Vita è Meravigliosa mantiene ancora intatta la sua verità natalizia: che la vita è un dono prezioso di Dio. Nessun uomo, se circondato da amici, si può considerare un fallimento. Un messaggio che lo stesso Frank Capra definì così nella sua autobiografia: “questo è il più bel film che avessi mai fatto. Era il film per la mia gente, il film che avevo voluto fare da quando avevo posato per la prima volta l’occhio contro il mirino della macchina da presa in una palestra ebrea di San Francisco. Un film per dire ai depressi, agli sconfortati, ai disillusi, ai barboni, ai poveracci, alle prostitute, che nessun uomo è fallito!”.
Impossibile non commuoversi ogni volta che si rivede la pellicola di Capra. Soprattutto oggi, in questo mondo che sanguina e che sembra farci perdere di vista l’orizzonte e il futuro. George incarna questo stato d’animo inquieto, di chi però non molla mai, di chi combatte per un obiettivo, contro tutto, contro tutti.
La Finestra Sul Cortile
Un incidente di lavoro ha costretto il fotoreporter L.B. Jeffries, abituato a vivere alla giornata, a rimanere nel suo appartamento, inchiodato su una sedia a rotelle con la gamba ingessata. Approfittando della torrida estate newyorkese, che fa tenere le finestre spalancate, si diletta a sbirciare nelle case dei numerosi vicini. Dentro quell’ alveare, che fermenta senza tregua, l’attenzione del suo innocuo passatempo si focalizza su un rappresentante di gioielli, suo dirimpettaio, la cui moglie scompare improvvisamente.
Da buon cittadino zelante, Jeffries si sente in dovere di risolvere il mistero, supportato dall’amante modaiola, deriso da uno scettico investigatore, suo amico di vecchia data e pungolato da una cinica infermiera. All’interno del gigantesco set, costruito da capo a piedi negli studios hollywoodiani, si respira a pieni polmoni l’atmosfera cittadina dell’America anni ’50, con un tocco di Western nei tramonti che si scorgono oltre i tetti. Un teatro di posa dove i condomini sembrano marionette barcollanti, sull’orlo di una crisi di nervi.
Dall’altra parte del cortile, Jeffries, da perfetto voyeaur, ammicca, giudica e si diverte, restando nella penombra, armato solo di binocolo e teleobbiettivo. Il possibile omicidio in casa Thorwald non è che un pretesto in più per restare sveglio la notte, a guardia della sua stessa maniacale passione che gli fa scrutare il privato degli altri per fuggire dal proprio. James Stewart, memore dei cowboys da lui interpretati nei tre anni precedenti alla pellicola in questione, è di una naturalezza disarmante nei panni del fotografo dallo stomaco poco delicato e giramondo, opposto ad un’elegantissima ed eterea Grace Kelly, fascinosa diva a colori, come fu la Garbo in bianco e nero.
Non c’è finestra che tenga: per il voyeaur tutte sono buone, soprattutto quelle aperte, e nascondono al loro interno storie normali e folli al tempo stesso. Ma ironicamente ciò che accumuna gli inquilini del caseggiato che Jeffries (James Stewart) osserva con tanta passione è l’amore: nobile sentimento, che anch’egli prova per Lisa (Grace Kelly) ma che, scapestrato com’è, non riesce ad accettare. Lo allontana con battute di spirito pungenti e intrise di sarcasmo cattivo, quasi moraleggiante. Con la stessa abnegazione fissa gli occhi su chi, l’amore, lo ha provato, lo prova o spera che un giorno potrà provarlo, tenendosene comunque a (in)debita distanza. Jeffries non osa mai parlare con i vicini.
Dagli eventi della pellicola, si intuisce addirittura che lui ne conosca a malapena il nome: da guardone doc mette in atto spiate degne di un film ambientato nella Guerra Fredda, con binocolo e teleobbiettivo, guarda caso, da lui stesso definiti come “ferri del mestiere”. La prima volta in cui parla al presunto omicida, lo fa attraverso un biglietto anonimo e poi attraverso la cornetta, sempre senza identificarsi. A causa di questa voragine panoramica tra lui e i suoi dirimpettai, La Finestra Sul Cortile è stata definita da Truffaut (e non solo) un film sul cinema. Dove lo spettatore attua a meraviglia l’identificazione secondaria, descritta da Metz, per cui si sente catapultato nella pellicola, nei panni del protagonista che, comodamente seduto sulla sedia a rotelle (dicesi anche poltrona nel tranquillo salotto di casa), si gode gli exploit dei vicini, compreso un morto e un assassino a piede libero.
Praticamente il sogno recondito, a detta del Maestro inglese, di ogni voyeaur che voglia essere chiamato tale. Ma se è vero che i telai delle finestre aperte riproducono alla perfezione anche i contorni di una televisione, allora, come giustamente notato dallo stesso Farinotti, Jeffries si troverebbe di fronte a tanti schermi e, pur senza telecomando, potrebbe vedere ciò che più gli aggrada. In questo senso, il film di Hitchcock risulta essere profetico. Fu prodotto nel 1954, all’alba del Boom economico, proprio quando la Tv stava cominciando a diventare patrimonio dell’umanità (occidentale), scalzando il più “antico” grande schermo.
Il Maestro del brivido sembra aver colto questa contrapposizione e il fascino televisivo, che non approfondisce i suoi contenuti ma che li fa solo supporre, avvolgendoli in una strana aurea di superficialità repressa e di psicologia spicciola. Allo stesso modo, i personaggi che popolano il caseggiato che si affaccia sul cortile, sono riconoscibili attraverso lati caratteriali ben delineati, come se ognuno di loro avesse un ruolo preciso nel divertire chi li guarda: “cuore solitario”, il cui nomignolo è tutto un programma (per un sabato sera andato male), la provocante e fugace ballerina classica, i due anziani che trattano il cane come un figlio, il pianista ubriacone, l’artista e, infine, Lars Thorwald, professione rappresentante e presunto uxoricida.
Interpretato da un gigantesco (in senso artistico) Raymond Burr, che da lì a tre anni troverà la fama mondiale nei panni di Perry Mason, Thorwald è l’oggetto del desiderio visivo di Jeffries, al quale vengono fatti balenare, davanti agli occhi, coltelli, corde, gioielli femminili e una donna, forse malata, che appare e scompare nel nulla. Ma la cosa più terrificante del film, psicologicamete parlando, è l’idea, lanciata con una sola battuta in tutta la sceneggiatura, che il protagonista (e quindi lo spettatore, stando all’identificazione sopra citata) possa essere osservato dai suoi stessi vicini, esattamente come lui fa con loro. Risultato: anche il guardone non è immune da sguardi maliziosi e non è libero di muoversi indisturbato in casa propria.
Una paura che si materializza alla fine della pellicola, quando Thorwald scopre che è stato Jeffries (con la sua bella) ad incastrarlo e lo va a trovare, per rendergli la mercede che si merita. Ecco spiegato il motivo per cui la suspense si alza quando, nel buio, si sentono i passi dell’assassino che sale le scale, per andare dal voyeaur inerme.
Lo spettatore, che dopo quasi due ore di film è già diventato guardone, freme nei panni di James Stewart con la gamba rotta, pur conservando un retaggio del proprio profondo senso di giustizia (magari condiviso anche da Jeffries), secondo il quale anche Thorwald non ha tutti i torti ad essere incavolato nero, perché da carnefice è stato degradato a vittima di uno spione, che gli ha rotto le uova nel paniere e gli ha distrutto il sogno di una vita da passare con la sua amante.