Il 22 novembre arriva al cinema – dopo la presentazione alla 13esima Festa del Cinema di Roma – A Private War, il biopic sulla coraggiosa reporter di guerra Marie Colvin, che lavorò per il settimanale britannico The Sunday Timesdal 1985 al 2012. Il film, diretto da Matthew Heineman e tratto dall’articolo di Vanity Fair Marie Colvin’s Private War scritto da Marie Brenner, ha come protagonista, nei panni dell’eroica giornalista (che per seguire la guerra in Siria, venne tragicamente uccisa insieme al fotografo francese Rémi Ochlik durante un’offensiva dell’esercito locale) Rosamund Pike.
Marie Colvin (Rosamund Pike), un’espatriata di origine americana che lavora a Londra come corrispondente di guerra per il Sunday Times, è la prima giornalista straniera a riuscire ad entrare nello Sri Lanka occupato dalle Tigri Tamil. Ignorando un vecchio divieto peri giornalisti, attraversa il Vanni e scopre una ben celata crisi umanitaria per i 500.000 civili che vivono lì. Dopo aver presentato la storia di quella crisi vissuta in prima linea, Colvin torna indietro attraverso il territorio in mano al governo, ma viene catturata durante gli scontri tra le truppe cingalesi e le Tigri Tamil. Viene colpita dalle schegge di un razzo e alla fine perde la vista dell’occhio sinistro. Nonostante la sua ferita, Colvin si rifiuta di appendere al chiodo il suo giubbotto antiproiettile. Invece, indossa una benda nera sull’occhio e fa un’apparizione pubblica per ritirare il premio di Giornalista Britannico dell’anno, dove ha uno scontro verbale molto teso con il suo caporedattore del Sunday Times,Sean Ryan (Tom Hollander). È chiaro che la giornalista non ha intenzione di rinunciare alla sua vocazione.
Mesi dopo, Marie è in Iraq sulle tracce di una fossa comune, molto lontana dalle avanzate americane. Si ferma a Bagdad, dove assume il fotografo freelance Paul Conroy (Jamie Dornan) per accompagnarla. Sulla rotta verso Falluja, vengono fermati a un posto di blocco dalle milizie pro-Saddam, armate di tutto punto. Lì su due piedi, Marie convince gli agenti che sono due operatori umanitari che aiutano i medici volontari e riescono a superare lo sbarramento. Marie predispone una squadra locale per scavare sopra la presunta fossa, e scopre i corpi di centinaia di kuwaitiani uccisi dal regime di Saddam. Rientrata a casa, tutti quegli anni vissuti in prima linea hanno segnato Marie in maniera molto pesante. Soffre, infatti, di disturbo da stress post-traumatico e ha un grave attacco di panico durante la sua permanenza a Londra. Dopo una sincera conversazione con la sua amica, alla fine accetta di farsi aiutare in un ospedale londinese. Anche se sembra fare progressi nell’affrontare il suo conflitto interiore, Marie è irrequieta e prova solo il desiderio di tornare a fare ciò che ama veramente: raccontare le storie di coloro che ne hanno bisogno.
Con il passare degli anni, Marie continua a coprire i conflitti più letali. Fa anche un viaggio in Afghanistan, dove testimonia gli attacchi dei talebani ai civili locali e ai convogli degli aiuti statunitensi. Incontra poi l’eccentrico uomo d’affari Tony Shaw (Stanley Tucci) auna festa e si innamora di lui. Tuttavia, il suo desiderio di una vita normale svanisce, quando viene portata in una zona di guerra in Libia, dove la Primavera araba è in pieno svolgimento e i ribelli minacciano di abbattere il regime di Gheddafi. Mentre si trova in Libia, il suo caro amico e collega giornalista, Norm Coburn, viene ucciso dal fuoco di un lanciarazzi. Nonostante la sua profonda disperazione, riesce a ottenere un ultimo colloquio faccia a faccia con Gheddafi in cui Marie sfida il dittatore.
Mentre la Primavera araba è in piena attività, Marie inizia ad avere i primi segni di cedimento, e pensa a come sarebbe la sua vita senza il trauma dei reportage di guerra. La sua storia d’amore con Tony rappresenta un futuro alternativo per lei –futuro in cui potrebbe godersi la sua relazione, perseguire la sua passione per la vela e passare più tempo con la sua famiglia e gli amici. Nonostante un momento fugace in cui sembra che Marie possa ritirarsi dalle prime linee, è costretta a viaggiare con Paul Conroy nella città assediata di Homs, in Siria, dove 28.000 civili innocenti sono tenuti in trappola in condizioni brutali. Questo sarà il compito più pericoloso della sua vita.
Il regista Martin Heineman racconta:
“Sembra che viviamo nell’era della post-verità, in cui i fatti vengono spesso scambiati per palesi menzogne, perché i dittatori, i terroristi e i politici utilizzano la propaganda per ottenere guadagni personali. Il risultato devastante è che le persone spesso non sanno a chi o cosa credere. I fatti sembrano essere malleabili. Il giornalismo è sotto attacco e sempre più polarizzato da “notizie” inventate che si mascherano da vero giornalismo. Profondamente preoccupato dalle minacce che ciò pone alla società, sono stato ispirato per fare A Private War dalla leggendaria corrispondente di guerra Marie Colvin. Una delle più famose giornaliste del nostro tempo, la Colvin era uno spirito assolutamente senza paura e ribelle, pronta a correre enormi rischi per ottenere una storia”.
“Era costantemente sotto attacco, ma ciò che la distingueva davvero, più di ogni altra cosa, era il suo profondo desiderio di mostrare la vera sofferenza umana causata dalla guerra. La sua missione, con le sue stesse parole, era di “alzare la testa contro il potere“. Voleva che il mondo si preoccupasse di quelle atrocità indicibili – che sono così spesso tenute a debita distanza – tanto quanto lei. Ma, nel farlo, è stata profondamente colpita dagli orrori che ha documentato, e ha cominciato lentamente a perdere il controllo sulla sua vita privata. Alcuni dicono che i reporter di guerra diventano dipendenti dalla guerra –e lei non ha fatto eccezione. Era una droga a cui non poteva sfuggire. La guerra, paradossalmente, era spesso il suo rifugio”.
“In misura molto minore rispetto alla Colvin, ho sentito la stessa bizzarra emozione causata dai reportage di guerra, e i pensieri oscuri persistenti che li accompagnano. Per me, A Private War è una lettera d’amore al giornalismo e un omaggio alla Colvin, che ha rischiato di continuo la sua vita lottando per raccontare verità difficili e sperando che il mondo se ne preoccupasse”.