Vincitrice dell’Orso d’Argento per la Migliore Attrice al 68° Festival internazionale di Berlino, Ana Brun è tra le protagoniste de Le Ereditiere, la pellicola al femminile diretta da Marcello Martinessi. Dopo aver vinto, sempre alla Berlinale, anche il premio Alfred Bauer ed il Fipresci della critica internazionale, il film arriverà sarà disponibile in Dvd, distribuito da Koch Media, dal 14 febbraio 2019.
Asuncion, Paraguay. Chela (Ana Brun) e Chiquita (Margarita Irún), entrambe discendenti da famiglie agiate, convivono da oltre trent’anni. Dopo un tracollo finanziario, sono costrette a vendere un po’ alla volta i beni ereditati. Quando Chiquita viene arrestata con un’accusa di frode, Chela è costretta ad affrontare una nuova realtà. Avendo ripreso a guidare, si improvvisa tassista per un gruppetto di anziane signore benestanti. Nel corso di questa sua nuova vita, Chela incontra Angy (Ana Ivanova), molto più giovane di lei, con cui stabilisce un rapporto molto speciale. Inizia così la sua personalissima e intima rivoluzione.
Lasciamo spazio ora ad un estratto dell’intervista rilasciata da Marcelo Martinessi.
Nei tuoi film precedenti hai esplorato eventi poco noti nella storia del tuo paese, il Paraguay. Come ti sei imbattuto nella storia di Chiquita e Chela? La loro storia è legata a un particolare momento o aspetto della storia del Paraguay?
È impossibile parlare del cinema paraguaiano senza essere consapevoli degli anni di oscurità, dei molti decenni in cui fare film non è stato possibile. Negli anni ’60 e ’70, mentre il resto dell’America Latina raccontava le sue storie sul grande schermo, il mio paese rimaneva invisibile. Ecco perché costruire una nostra cinematografia è una sfida cruciale per la mia generazione. Quando ho scritto la storia di Chela e Chiquita, mi sono reso conto che quello che cercavo di creare era essenzialmente un dialogo con quel periodo di oscurità, con una società che non vuole cambiare, che preferisce rimanere nascosta, aggrappata alla propria ombra. Il recente colpo di stato (2012) ha messo in evidenza che c’è sempre stata una relazione tra la nostra piccola borghesia e i regimi autoritari (…segue…).
(…segue…) E non sto parlando solo di quei personaggi forti che hanno usato stivali e fucili fino alla fine degli anni ’80. I nuovi leader “democratici”, che ora condividono i benefici della corruzione e del traffico di droga, hanno bisogno di trovare complicità nella nostra società per provocare le stesse paure e mantenere gli stessi silenzi. Personalmente sono interessato alla vita quotidiana che si svolge al di fuori di queste aree di potere. Era per me irrilevante collocare Le ereditiere in un momento specifico della nostra storia politica, perché la sensazione di vivere in una gigantesca prigione rimane la stessa. Per me questo è essenzialmente un film sui confini.
Puoi dirci di più sul contesto sociale del film, le famiglie borghesi da cui entrambe le donne discendono?
La cosa peggiore di un regime che protegge e reprime allo stesso tempo, è che crea individui per i quali è impossibile sfuggire a questa logica. Il Paraguay è uno dei paesi in cui la disparità sociale è più accentuata, e queste donne appartengono a quella élite protetta e privilegiata che ha un tetto sulla testa e cibo assicurato. La storia si sviluppa man mano che iniziano a perdere la propria sicurezza economica e devono trovare un modo per adattarsi alla nuova realtà. La protagonista ha ancora bisogno dei suoi piccoli lussi, della macchina di marca, del suo domestico… e anche se l’auto è vecchia o il domestico non ha molta esperienza, fa tutto il possibile per preservare i suoi privilegi. Il fatto di dover trovare un lavoro e di dover guadagnare dei soldi, cosa del tutto normale, la pone in una situazione del tutto nuova. All’improvviso il desiderio diventa un orizzonte sconosciuto, ricco però di possibilità.
Qual è stata la tua ispirazione per il film? Quali le tue influenze artistiche?
Sono cresciuto in un mondo modellato dalle donne: madre, sorelle, nonne, zie, vicine di casa. Volevo che il mio film entrasse in quell’universo femminile, che mi interessa ancora di più da quando ho iniziato a guardare i film di Fassbinder. Una delle mie zie aveva sempre un vassoio con sé, come quello che abbiamo usato nel film. Su quel vassoio aveva acqua frizzante, acqua naturale, caffè, un piccolo taccuino, il suo rosario, le sue pillole. Quel vassoio è diventato per me un punto di riferimento, un simbolo, una sorta di guida per le simpatie e le ossessioni della protagonista, una chiave per capire i suoi limiti. Quel vassoio è per me il suo modo di relazionarsi con la sua cerchia interna, di misurare la forte contraddizione tra confort e controllo, che è fondamentale per la sua personalità. Per il ritratto della borghesia paraguaiana l’influenza più forte è stata forse quella dello scrittore Gabriel Casaccia. Il suo primo romanzo fu pubblicato negli anni ’50, quando la nostra letteratura narrava solo di eroi. Lui ha tolto ai personaggi paraguaiani la supponenza regalando loro una umanità sconosciuta. In un certo senso qualcosa di simile si sta facendo ora con le donne paraguaiane: l’immaginario collettivo le colloca nel ruolo di eroine durante le guerre, forti e resilienti, ma è una visione molto pericolosa quando questo è il loro unico posto. È una trappola che mira a plasmare il loro ruolo nella società di oggi. Onestamente, penso che molte donne non vogliano e non debbano dover sostenere un tale peso. Tra le altre cose, meritano l’opportunità – naturalmente data a tutti gli uomini – di essere anche un po’ irresponsabili.
Nel film racconti una storia di donne anziane, un gruppo raramente rappresentato nel cinema. Puoi dirci di più su questo attaccamento personale a uno stadio della vita che non hai ancora sperimentato? In che modo questa generazione è importante per te?
Nato in Paraguay negli anni ’70, siamo figli di una generazione perduta. Il militare salito al potere nel 1954 ha promosso il culto della sua personalità, ha proibito libri, torturato e ucciso i giovani, o li ha mandati in esilio. È stato al potere fino al 1989. I nostri genitori, quelli rimasti nel paese, hanno passare la giovinezza all’ombra di un regime che non permetteva loro di essere se stessi, vivendo i migliori anni sotto lo scacco della paura. Una generazione, naturalmente, tende a riprodurre i suoi valori e le sue forme. Queste donne, senza averne alcuna colpa, sono il prodotto di un tempo che pensavamo fosse finito. La storia recente ci mostra però che purtroppo non è così. Ecco perché sono interessato a vederle, a esplorare quell’universo che per me rimane un mistero. In molte rappresentazioni cinematografiche le donne appartenenti a questa classe sociale sono descritte come caricature. Io però sono cresciuto nascondendomi dietro alle porte o sotto i tavoli, pur di ascoltare le loro conversazioni. Ho cercato quindi di ritrarle nella loro intimità, consapevole però di non essere forse mai riuscito a capirle appieno.
Ci mostri un universo femminile in cui gli uomini sono quasi completamente assenti…
Nel Paraguay della mia giovinezza c’era un solo modo di essere un uomo, modellato dall’esercito e dalla Chiesa cattolica. Questo non lascia molto spazio per essere se stessi, si finisce con il crescere con identità prese in prestito. Uno dei problemi delle società maschiliste come il Paraguay, è legato alle aspettative maschili: ci si aspetta che l’uomo abbia tutte le risposte. E questo è frustrante, nessuno ci insegna a godere del piacere di avere dubbi e domande.
Il finale del film è aperto, suggerendo una partenza e un nuovo inizio per le tue protagoniste.
È stato molto difficile per me decidere per un finale aperto. Quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, l’ho fatto guidato da una visione pessimistica sul futuro della mia società. Mi sembrava impossibile pensare a una via d’uscita. Poi però, come spesso accade, abbiamo imboccato una strada inaspettata. Sono state loro, le mie protagoniste, a mostrarmi una porta aperta e la possibilità di un nuovo inizio. È stata una sorpresa, una scoperta bellissima.