Si chiama Gabriele Rubini e il suo nome d’arte è noto a tutti: Chef Rubio. Da diversi anni è uno dei protagonisti assoluti della tv. Nello tsunami di programmi legati alla cucina e al food, lui si distingue. Preparato e attento all’alimentazione, Rubio è uno Chef dallo stile unico che lo ha reso celebre. È un cuoco non convenzionale e indipendente, ma soprattutto è una persona autentica. C’è chi pensa a quello che dice e chi dice quello che pensa. Lui appartiene alla seconda categoria. Schietto, diretto, con la “lingua rasata”. A costo di risultare insopportabile a chi non la pensa come lui.
Unti e Bisunti è il programma che lo ha consacrato (e da cui è nato il film Unto e Bisunto – La Vera Storia di Chef Rubio, andato in onda su DMAX nel 2016), mentre ora sta andando in onda su Nove la terza stagione di Camionisti in Trattoria (dal 10 marzo, ogni domenica sera per otto episodi). Eppure Rubio mette al primo posto le persone, non il cibo. Non ha un suo ristorante, preferisce viaggiare, allargare le prospettive, conoscere, imparare, capire, ricercare. Sempre. Scoprire nuovi sapori, culture diverse e tradizioni a lui sconosciute e, soprattutto, incontrare l’altro: le persone. Capire cosa sta succedendo al mondo, in che direzione sta andando. Attivo nel sociale, sempre al fianco degli emarginati, per Rubio ogni incontro è un’esperienza da raccontare.
Ok, “Chef” è e resta la parola e il titolo che identifica e accompagna il suo nome. Ma oltre alla cucina, Rubio è molto legato anche al cinema e alla fotografia. Per questo motivo ho voluto intervistarlo. Scrittura e immagine sono infatti due aspetti che rendono i suoi programmi e il suo modo di raccontare le ricette e il cibo diversi da tutti gli altri (privatamente studia regia e sceneggiatura). Protagonista davanti alla macchina da presa, ma anche autore e narratore con voce off. Ogni puntata come una storia a sé stante, come un racconto. O addirittura come un piccolo “film”? Lo provoco: “No, sarebbe troppo pretenzioso, un film è senza dubbio più complesso”. È da qui che è iniziata la nostra chiacchierata.
In tv è arrivata la terza stagione di Camionisti in Trattoria, quest’anno ti sei spinto anche oltreconfine: tanti chilometri percorsi per una sola grande (e nuova) avventura. Che esperienza è stata per te? Ti piacciono i film “on the road”?
È stata un’esperienza interessante perché, dopo un breve periodo di pausa dopo le registrazioni italiane, ho avuto modo di disintossicarmi e di re-innamorarmi dei Camionisti. I film on the road mi piacciono molto. Da Easy Rider a The Road, con Viggo Mortensen: la strada è sempre molto interessante perché è piena di pericoli e di sorprese.
Tra le tue attività, c’è anche TUMAGA, società indipendente che nasce dalla tua grande passione per le arti audiovisive e fotografiche. Su Instagram, hai anche un profilo come fotoreporter (@ChefRubioPhotographer). In viaggio, non per registrare un programma tv, ma per osservare la vita, alla scoperta di sapori, tradizioni e soprattutto umanità diverse. Cosa ricerchi nei tuoi scatti?
Nei miei scatti cerco di raccontare la mia esperienza diretta, che non è finalizzata a raccontare solo sapori, odori, tradizioni e culture diverse. Quello che cerco è soprattutto l’incontro di persone. Senza questo incontro tutto il resto, il mio viaggio, sarebbe secondario e superfluo.
Da sempre sei impegnato nel sociale, al fianco dei più deboli, degli emarginati. Dal tuo ultimo viaggio in Pakistan ai rom che si trovano a Roma, hai pubblicato dei ritratti fotografici di un’autenticità incredibile. Una scelta tecnico/artistica che adotti spesso è il cameralook. Quasi sempre in bianco e nero. Mi spieghi perché questa scelta? Cosa ti evoca lo sguardo in macchina?
Il Cameralook viene automatico tra due persone che s’incontrano e s’intendono sul momento, altrimenti chiedere il permesso di fotografare è quella buona regola che consente di cogliere quell’attimo nello sguardo. È la relazione più semplice per entrambi, sia per chi viene fotografato, sia per me, che cerco di raccontare le loro anime. Però, senza dubbio il cameralook è anche una mia scelta che nasce dalla volontà di utilizzare il loro sguardo come arma per fare breccia e scatenare delle emozioni. Le persone che fotografo guardano solo l’obiettivo, non pensano a chi potrà poi guardare le fotografie. Sono sguardi autentici, diretti a me: mi piacciono le persone che guardano negli occhi.
Allo stesso modo, che cosa ti evoca il bianco e nero?
Il bianco e nero è l’unica forma di fotografia che riconosco. Il colore può essere bello, caldo, divertente, stimolante, attinente. Ma non sarà mai come il bianco e nero. Il bianco e nero è la storia della fotografia, è immortale.
Il bianco e nero mi fa venire in mente le pellicole del passato. Pensa al Neorealismo, quando una volta il nostro cinema era preso ad esempio. Ora invece scatta una fotografia dell’attuale cinema italiano. Che immagine mi descriveresti?
Il cinema attuale è povero di rischi. I produttori cinematografici non pensano ad altro che fare soldi e costruirsi case, facendo il loro porco comodo a discapito delle storie, dei racconti e della qualità. Una volta si facevano dei grandi film, mentre oggi si vive di remake, di sceneggiature prese da altri, di rifacimenti, di approssimazioni. C’è poco studio e poca ricerca, soprattutto nella scelta degli interpreti. Troppo spesso ci si siede solo sulla bravura di qualche attore e la si perpetra nel tempo. Per questo motivo l’immagine del cinema italiano che mi viene in mente è deprimente e spoglia. Non vedo gente con le palle capace di raccontare storie senza dover poi scendere a dei compromessi che fanno scadere tutto nella banalità.
Nelle tue storie di Instagram, da qualche tempo vedo che pubblichi le locandine di film che suggerisci di vedere, rivolgendoti soprattutto alle nuove generazioni. Hai consigliato tanti titoli, mi diresti i tre che ritieni fondamentali e che ti hanno illuminato?
Sono tutti film che fanno parte della mia crescita. Li ho condivisi per sollecitare i più giovani a vedere delle opere che magari ancora non conoscono. Me ne chiedi tre, eccoli: Bus 174 di José Padilha (documentario portoghese del 2002), Blackfish (altro documentario, 2013, ndr.) di Gabriela Cowperthwaite e Once Brothers (documentario, 2010, ndr.) di Michael Tolajian.
Il cinema permette di inventare e raccontare storie. Deve emozionare ma anche fare riflettere. Se un domani diventassi regista, ti piacerebbe di più girare un film d’invenzione o realizzare – da buon fotoreporter – un documentario?
Un inizio di regia l’ho fatto con la realizzazione della campagna Adotta un Gorilla con il WWF, dove credo di essermi difeso discretamente. Ma quello lo considero solo un antipasto. Mi piacerebbe dirigere un documentario più impegnativo e completo. Girare un film? Perché no: se un giorno mi si presenterà l’occasione non mi tirerò indietro e penserò a come gestire la cosa. Ma non è un mio obiettivo o un’ossessione. Quindi se non capiterà non sarà un problema, faccio già tante cose. Non mi posso ritenere insoddisfatto del mio percorso e della mia continua ricerca di un gradino in più da scalare.
Parere personale: potresti essere un ottimo attore in una commedia. Cosa commenti?
Credo di essere in grado di ricoprire sia ruoli comici che tragici, a patto che mi si chieda di raccontarmi per quello che sono. Se mi si chiede di interpretare un altro personaggio invece dovrei studiare e di conseguenza dovrei rimettermi di nuovo in discussione.
Come spettatore, ti piace di più la visione privata (tv, tablet o pc) o vedere una sala che si riempie davanti ad un grande schermo?
Preferisco vedere un film in sala. Ultimamente però la mia visione è quasi sempre privata, sul tablet. Ma il cinema è il cinema. Ci sono sempre andato, soprattutto da solo. Spero di poterci ritornare.
La nostra società non sta vivendo un grande momento storico. Secondo te il cinema, come mezzo di comunicazione universale, ha una propria responsabilità per parlare alle coscienze?
Il cinema ha cambiato gli eventi della storia e sempre lo farà. Non è mai stata la storia ad essere rappresentata dal cinema ma è spesso stato quest’ultimo ad aver influito, anche irreversibilmente, sul corso degli eventi, raccontandoli, storpiandoli, esaltandoli. Il cinema è fondamentale: se è fatto di merda, ne consegue una realtà di merda.
Intervista di Giacomo Aricò
CAMERALOOK
Matt Dillon ne La Casa di Jack di Lars von Trier, perché la pazzia e la poesia del personaggio sono raccontati dagli sguardi di un ottimo interprete, troppo spesso sottovalutato e lasciato ai margini.