Da ottobre, edito da Fefè Editore, è uscito in libreria Chantal Akerman, Uno Schermo Nel Deserto, un bellissimo volume dedicato alla compianta Chantal Akerman, regista sperimentale e video artist belga scomparsa nel 2015 a 65 anni. Artista inquieta e appassionata, la Akerman nella sua carriera ha collaborato con attori e artisti come Andy Warhol, Catherine Deneuve e Juliette Binoche, e, nel 1975, ha diretto quello che ancora oggi è considerato il suo film più famoso, quel Jeanne Dielman, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles, diventato un punto di riferimento nella storia del cinema. Prima di questo testo, non esisteva ancora una monografia critica, completa di regesto di tutte le sue opere (film, libri, installazioni): Chantal Akerman, Uno Schermo Nel Deserto, colma questo vuoto e ricorda (anche attraverso molte illustrazioni) una Donna-Artista che in ogni lavoro che ha fatto ha messo tutta se stessa, la sua anima, il suo stile. Ne abbiamo parlato con l’autrice del libro, l’Architetto e Storica del Cinema Ilaria Gatti che ha realizzato questa monografia con Alessandro Cappabianca, anch’egli Architetto e Critico Cinematografico.
Intervista a Ilaria Gatti
Ilaria, partirei dalla fine, dall’immagine di Chantal nel deserto in I Don’t Belong Anywhere. Un presagio del suo addio. Un momento che diventa simbolo del titolo stesso del documentario di Marianne Lambert e del sottotitolo del volume, “Uno Schermo Nel Deserto”. La rappresentazione di una donna sola, circondata dal nulla, dal silenzio. Un luogo/non luogo dove non c’è alcun riparo. È forse già in questa immagine che vediamo sintetizzata tutta la sua vita?
Quella è l’immagine dell’ultimo capitolo del nostro libro che si chiama Epilogo ma probabilmente è anche l’ultima sequenza che la ritrae ancora in vita; è un fotogramma del film della Lambert nel quale lei si avvia sola nel deserto e si volta a guardare indietro. Sembra serena, anche se sola e in uno spazio senza confini, battuto dal vento. Drammatico rivederla oggi sapendo che il film è uscito il 23 settembre 2015, mentre lei era in ospedale e che si è tolta la vita solo 12 giorni dopo, il 5 ottobre 2015. Questo film, secondo me, ha valore di testamento. Anche se girato da un’altra persona, Marianne Lambert, è possibile che la Akerman lo abbia vissuto come un suggello della sua vita, del suo lavoro, una conferma della sensazione di smarrimento nella quale viveva dopo la morte della madre e quindi dell’impossibilità di produrre altro. Del non avere più una direzione, un riferimento. Quando si volta e guarda verso la macchina da presa solo per un attimo, sta salutando: forse aveva già deciso di chiudere lì la sua vita o almeno il suo lavoro. Già da quel momento il film è diventato un omaggio a Chantal, alla sua vita, alla sua arte ricca di empatia che non nasconde mai una sostanziale solitudine, ed ha proprio il valore di un epilogo.
“Quando tu fai un film, ti ci metti tutt’intera”. Dietro o davanti alla macchina da presa, che film è stata Chantal? Nel libro, riferendosi alla sua produzione, parli di “autoritratto filmico”…
In effetti, tutto il materiale che lei ha prodotto può essere considerato una sorta di autoritratto filmico: è un sistema di sovrapposizioni, pause, ricordi, verità, fisicità del suo personale quotidiano nel quale fa convergere grandi temi come il razzismo, la politica, la Memoria, l’identità oltre a tutte le sopraffazioni, le ingiustizie e le trasformazioni sociali che aveva visto in giro per il mondo. Lei ha sempre messo in contatto – messo a reagire – l’estremamente piccolo della sua vita quotidiana con l’estremamente grande che aveva incontrato nel mondo. Too Far, Too Close. Ha sempre trasfigurato tutto il materiale della sua esistenza come se la sua vita privata, la storia della sua famiglia e dei rapporti familiari avessero un valore universale.
Ma non solo: anche i film che ha girato per raccontare quello che avviene, per esempio, lungo il confine Messico/Stati Uniti (De l’autre côté) o gli episodi di razzismo che ancora si vivono nel Sud degli Stati Uniti (Sud), o il lungometraggio D’Est, realizzato nel 1993, sulle trasformazioni nei Paesi dell’Est europeo dopo il crollo del comunismo, o ancora (Là-bas) uno strano, claustrofobico film in cui Chantal è in un appartamento a Tel Aviv, a pochi passi da un attacco terroristico appena avvenuto e medita sull’essere ebrei, sul coraggio necessario per esserlo in Israele oggi e si domanda se Israele non costituisca una terra d’esilio ulteriore per chi è dovuto fuggire dai Paesi europei in cui abitava. Si offriva ai suoi viaggi senza preconcetti: “Quando giro un documentario vado senza idee, senza niente da vedere e arrivo là come una spugna. Se mi dicono, cosa stai cercando? Rispondo, non so. Se parto senza idee, succede qualcosa”. I suoi documentari erano sempre l’altra faccia di un approfondimento interiore; ogni film era un documentario sul mondo e su se stessa e, in fondo, sulla ricerca del suo posto nel mondo. Tutto però sempre filtrato attraverso un linguaggio cinematografico particolare, inconfondibile.
Da spettatrice de Il Bandito Delle Ore Undici (Pierrot le fou, 1965) di Jean-Luc Godard, film per lei decisivo, a regista del film-manifesto Jeanne Dielman (1975), all’apertura dell’arte cinematografica verso le videoinstallazioni (1995), esattamente vent’anni prima della morte. Tra l’inizio e la fine, e ogni svolta, sembra esserci una regolarità.
L’arte, la narrazione, la scrittura, il cinema, i rapporti sentimentali, sembrano essere stati tutti vissuti seguendo urgenze pressanti, come avvenne quando, appena diciottenne, girò ed interpretò il corto Saute ma ville dove mise in scena una ribellione sarcastica e ironica nei confronti delle tradizionali attività domestiche. E’ un film sorprendente nel quale usa il suo corpo come materiale filmico, dove sprigiona una potenza e un totale, istintivo talento e dove alla fine crea un’esplosione con il gas e salta in aria: già allora il futuro suicidio è annunciato. E’ forse questa la sequenza ispirata a Pierrot le Fou e alla dinamite che Belmondo si lega attorno alla testa prima di saltare in aria. Ha lavorato molto, ha prodotto film, ha scritto libri e sceneggiature, ha girato, a soli 25 anni, Jeanne Dielman, quello che è considerato un capolavoro che resterà nella storia del cinema, fino ad approdare alle video-installazioni con un impegno continuo interrotto solo dalle aggressioni di una grave depressione che le toglieva l’equilibrio, la costringeva a continue terapie. Quindi ha lavorato tanto nonostante la sua vita fosse piena di vuoti, di assenze, di fantasmi del passato, di paure da superare, ha scritto sceneggiature con frequenti riferimenti più o meno espliciti alla sua personale situazione, parlando di omosessualità ed ebraicità, di solitudine, di erranza, di ossessioni, di misteriose correnti sotterranee del familiare, sempre visti dall’interno.
Quanto l’arte è stata terapeutica per la Akerman?
Si, penso che il suo lavoro abbia avuto un valore terapeutico: Chantal ha sempre cercato di rendere esplicito ciò che apparteneva alla sua vita privata, ha offerto se stessa, il suo corpo, alla macchina da presa come se fosse alla ricerca di una visione il più possibile oggettiva di sé. In quella oggettivazione tentava forse di ricomporre le sue parti ineluttabilmente frammentate. D’altronde anche il suo modo di fare cinema attraverso la stasi, l’inquadratura oggettiva, un’apparente ricerca di verità attorno alla quale sono costruite le sequenze in tempo reale, l’insistenza sugli oggetti, una sorta di iperrealismo nella minuzia descrittiva rappresentano la volontà di cogliere più profondamente l’anima delle cose. Naturalmente c’è stato un prezzo da pagare. In termini di popolarità presso il grande pubblico e di sostanziale estraneità rispetto all’establishment commerciale cinematografico: ma di questo, Chantal non si è mai preoccupata.
La Storia ha investito profondamente la storia della sua famiglia. Quello della Shoah è stato il tema che ha affrontato in modo più ossessivo. È stato questo il blocco più grande della sua esistenza?
Sua madre e i suoi nonni, ebrei di origine polacca, sono emigrati in Belgio nel 1938 per sfuggire alle persecuzioni naziste ma sono stati deportati ad Auschwitz insieme a molti altri membri della loro famiglia tra i quali le sorelle di sua nonna che era una pittrice e morì a soli 35 anni. Sua madre Natalia, allora sedicenne, riuscì a salvarsi ed ebbe Chantal a ventidue anni. Quando nacque era già circondata di fantasmi. Parenti scomparsi di cui non restava nemmeno una foto, un vestito, una traccia qualsiasi. “E se loro, i miei genitori, volevano dimenticare il passato e quindi non avevano nulla da dire e da mostrare, io avrei parlato di questo nulla”. Questo è stato determinante per il suo cinema: Chantal ha percorso questo nulla tra le pieghe dei fatti, scovando le esitazioni, aspettando nell’ombra, fino a quando il nulla che filmava cercandolo in giro nel mondo, si è dilatato in un silenzio doloroso che apparteneva anche alla sua personale storia, alla sua famiglia.
Il terzo capitolo del libro si chiama La Madre. La domanda principale non può che riguardare il legame, totalmente determinante, tra Chantal e sua madre Natalia. Un legame cui è dedicato il terzo capitolo del libro. Tu come lo descriveresti?
E’ un argomento determinante per capire il lavoro della Akerman. Il rapporto di reciproca dipendenza, tra madre e figlia, è iniziato subito: una madre che nascondeva una grande pena, un’indicibile sofferenza e una neonata che rifiutava di mangiare come se, attraverso il rifiuto del latte, cercasse di attirarla a sé e di distoglierla dai suoi misteriosi pensieri. Dopo la guerra ed Auschwitz, Natalia era sola, lontana da tutto, dalla famiglia distrutta o dispersa. Helen Epstein scrive: “Bisognava far finta di nulla, tornare alla vita, fare almeno un figlio per dare un senso a questa nuova esistenza. E così noi, i figli, diventavamo appena nati, simbolo di sopravvivenza e di rinascita. Per noi essere vivi non era qualcosa di scontato; la nostra esistenza doveva assolutamente avere un significato”. Questi figli, gli ebrei di seconda generazione diventeranno Le candele della memoria e avranno il duplice ruolo di illuminare di speranza il futuro e di conservare la profondità delle esperienze passate. Un figlio rappresentava il modo per cercare di riempire di senso e di sentimenti il vuoto del loro cuore paralizzato nelle emozioni e avrà il compito di sanare la mente di genitori sofferenti ma nello stesso tempo si troverà ad assimilare il trauma da loro vissuto. Quindi un compito difficile per i figli: rappresentare con forza la vita contro la morte, qualcosa di fondamentale per la sopravvivenza dei loro cari (continua).
(segue) Questo è avvenuto nel rapporto tra Chantal e Natalia: la figlia, fin da piccolissima, ha avuto accanto una madre che apparentemente era sorridente e felice, ma che nascondeva un grande vuoto, un senso di solitudine, di perdita, una fragilità psicologica e, cosa ripetuta più volte dalla Akerman, un diritto di tacere sul passato, di vivere con una parte di sé immersa nel silenzio. Il rapporto di dipendenza simbiotica tra madre e figlia si è costruito sulla protezione reciproca: Chantal fin da piccola era come un vecchio bambino, non poteva uscire di casa e guardava dalla finestra gli altri bambini perché sua madre aveva paura per lei; non faceva capricci, non diceva mai di no perché non voleva far soffrire questa persona che aveva tanto sofferto. Ma di sofferenza non si è mai parlato. Di quello che era avvenuto i genitori non parlavano. Per questo è diventato inevitabile per lei confrontarsi con il problema del silenzio, il silenzio della madre su Auschwitz, lo sradicamento, la sensazione della propria diversità. E’ diventato inevitabile lottare per raccontare il silenzio.
Un Divan à New York (1996), film dove diresse attori mondiali come Juliette Binoche e William Hurt, la Akerman lo descrisse come “la morte di mio padre”. Come fu il rapporto tra Chantal e suo padre?
Lo descrisse così perché lo ha girato nel 1996 durante la malattia e la morte di suo padre. Nel 1998 pubblicò un libro su questo, sui rapporti familiari, su sua madre smarrita, vedova da poco tempo, che si chiama Une famille à Bruxelles. Con il padre non aveva un rapporto significativo quanto quello con la madre, ma anche il padre l’ha sempre capita, accolta e protetta. Non c’era però un reale scambio, una condivisione. Per lei, tutto era assorbito dal rapporto con sua madre Natalia.
Chi si ferma è perduto: Bruxelles, Parigi, New York, Gerusalemme. Chantal scappava per tornare, in moto perpetuo, mossa dall’urgenza di esprimersi, dall’impazienza di sperimentare e dalla sua continua insofferenza. Un viaggio lungo e continuo senza Casa, senza base, “perché altrove è sempre meglio”. Da che cosa scappava sempre Chantal?
Da un’inquietudine che la seguiva ovunque: certamente la casa dei genitori a Bruxelles è il luogo delle sue radici. Però sono radici precarie, trapiantate da un altrove, radici che erano già state sradicate ed esposte ad un trauma mentale. L’origine è ormai irrimediabilmente perduta quindi la sua casa è sempre in un altro luogo perché in realtà non esiste. Ha una casa a New York e una a Parigi ma sua madre è a Bruxelles ed è lì che deve sempre tornare per poi ripartire. “Sto partendo per Parigi, nel mio appartamento è (dovrebbe essere) chez moi. E’ quello che si dice chez moi. Ma io non sento di avere un chez moi, né un altrove. A volte mi dico: vado a stare in hotel. Là sarà un chez moi ailleurs. Là potrò scrivere”.
In questo momento si è tornati a parlare fortemente di femminismo e del ruolo della Donna nella società moderna. Secondo te quale messaggio ha lasciato la Akerman? Perché la sua vita e la sua arte devono essere ricordate?
Purtroppo in questo momento non mi pare ci siano sostanziali interessi in Italia verso un miglioramento della condizione femminile: quest’epoca sarà ricordata come quella del dramma dei femminicidi; tutto ciò è molto lontano dalla Akerman il cui messaggio è insito nella determinazione e nel coraggio con cui ha portato avanti il suo cinema senza mai indulgere nel meccanismo tipico del cinema hollywoodiano secondo il quale il pubblico deve essere trascinato da una storia a ritmi serrati. Il suo cinema, al contrario, non cerca la forza della storia ma pone in primo piano la macchina da presa, i suoi movimenti, le riprese, le inquadrature. Il coinvolgimento dello spettatore non è un obiettivo da perseguire. Proprio qui sta la forza della Akerman; nella sua libertà dagli stereotipi e dal business del cinema commerciale. Quando ha girato Jeanne Dielman di certo non pensava al pubblico ed è emersa la novità rivoluzionaria che il film proponeva: l’alienazione del lavoro quotidiano di una donna. Jeanne Dielman fu adottato dalle femministe, divenne una bandiera: ciò che in un primo tempo era considerato come “noioso”, mostrò il suo lato terrificante. Abbiamo ritenuto interessante parlare oggi di lei perché riteniamo che il suo lavoro sia molto importante: in questo momento, tutta l’area delle immagini in movimento è basata su forti strutture narrative: possiamo dire che oggi il cinema è dominato dalla narratività. Predomina il racconto, siamo abituati al ritmo accelerato, hanno grande successo ad esempio le serie che sono in genere basate sull’avvicendamento, sulla rapida successione, sui colpi di scena, piuttosto che sulla riflessione (continua).
(segue) Tutto il lavoro della Akerman era contro il concetto secondo cui per costruire uno spettacolo è necessaria una trainante struttura narrativa: il suo lavoro sperimentale è basato infatti non tanto sul racconto quanto sulla durata, sul cogliere e fare percepire il passaggio del tempo, sul lasciare che lo spettatore abbia modo di fare associazioni mentali e segua il film con un distacco consapevole e non sia travolto dal ritmo degli eventi narrati, che abbia la percezione di quelle due ore trascorse al cinema e che uscendo non dica: “Era così bello che non mi sono accorto delle due ore che sono passate”. Per lei quelle due ore devono essere vissute con attenzione, non devono solo “passare”. Il suo è, a volte, un modo sensibile per cercare di raccontare il vuoto. Per allusioni, pause, attraverso le riprese in tempo reale. Spesso il suo racconto è una attenta registrazione del silenzio. La sua è una filmografia impressionante per quantità, con una sintassi cinematografica specifica basata sui lunghi piani fissi, sulle riprese circolari, sull’uso della camera-car, tutto collegato all’eterna inquietudine dei suoi viaggi per il mondo ma anche alla necessità di mettere in scena la propria vita. Per questo, è per lei impossibile fare ricorso alla struttura narrativa tipica del linguaggio cinematografico: lei è sempre in cerca di altro: in cerca di ciò che del reale si annida “nei piccoli niente”, come diceva: il suo lavoro sperimentale dal 1995 andrà in direzione della visual art, della video-installazione.
Intervista di Giacomo Aricò