Qualche giorno fa la Nazionale Italiana di Calcio battendo il Liechtenstein, ha ottenuto la 9^ vittoria consecutiva nelle ultime nove gare. Il C.T. Roberto Mancini ha così eguagliato il record di vittorie raggiunto in passato dal solo (leggendario) Vittorio Pozzo. Una soddisfazione arrivata a poco meno di due anni dal punto più basso toccato dagli Azzurri nel novembre 2017, quando la qualificazione ai Mondiali in Russia 2018 sfumava dopo il doppio confronto/spareggio con la Svezia. Un momento che ha rappresentato non solo una cocente delusione sportiva (non accadeva dal 1958) ma anche la sconfitta di un movimento intero che nel giro di dodici anni dopo il campionato del mondo vinto in Germania non è più stato in grado di crescere una nuova generazione di calciatori di livello mondiale. Da quel momento – passato ma ancora fresco nella memoria – inizia Vivaio Italia, il documentario-inchiesta scritto e diretto da Luca Rinaldi e realizzato in collaborazione da Infinity e Produzioni dal Basso.
Rilanciare i giovani
Anche se, come dice il detto, “vincere aiuta a vincere“, i promettenti risultati della Nazionale non bastano a ritenere risanato il nostro stramatissimo calcio italiano. Il percorso è ancora lungo e, per la risalita, è necessario che i club siano disposti a investire sui loro settori giovanili, coltivando calciatori da lanciare nel massimo campionato e gradualmente preparati per giocare sui massimi palcoscenici internazionali. L’obiettivo principale è il seguente: andare oltre all’oggi e guardare più avanti, per una politica sportiva che guardi davvero allo sport e non ad altri interessi. Il Futuro del nostro sport nazionale passerà sempre dai giovani, questo è certo. Sono i giovani e talentuosi calciatori del domani che su quel rettangolo verde diventeranno atleti professionisti e soprattutto uomini: gli interpreti di una filosofia e di un intero movimento che merita di tornare ad altissimi livelli.
Un’inchiesta sul “campo”
Vivaio Italia è un vero e proprio viaggio che certifica lo stato di salute del calcio italiano, non tanto di quello presente ma, come abbiamo detto, di quello futuro. In questo documentario-inchiesta il giornalista (e mio amico, eravamo compagni di corso all’Università) Luca Rinaldi ha cercato una risposta complessiva che nasce dalle risposte dirette di allenatori, osservatori, calciatori ed educatori. A loro, Luca ha rivolto diverse domande: cosa pensate del “Vivaio Italia”? Come lavorate? Cosa fate per la crescita personale oltre che sportiva e professionale dell’atleta? Quanto le società professionistiche sono in grado di capire se in casa propria sta crescendo un talento vero? E quanto sono disposte a investire per la crescita non solo del club ma di un intero movimento che potrebbe portare di nuovo la nazionale sul tetto del mondo?
Intervista a Luca Rinaldi
Per capire meglio cosa ha trovato lungo il suo percorso, ho deciso di intervistarlo.
Luca, rivolgendoti a chi ancora non ha visto il tuo documentario, che cosa hai voluto raccontare con Vivaio Italia? Hai trovato le risposte che cercavi da tutti gli addetti ai lavori che hai intervistato?
In Vivaio Italia ho voluto raccontare quello che c’è ma non si vede nei settori giovanili in Italia e cioè persone che hanno una visione e che cercano di rendere solido il movimento calcistico italiano. Operazione non sempre semplice, come hanno testimoniato gli addetti ai lavori intervistati che hanno mostrato grande disponibilità e onestà nelle loro interviste.
Il documentario inizia dal momento terribile (sportivamente parlando) della mancata qualificazione al Mondiale Russo 2018 (a me continuerà a suscitare, da tifoso, tristezza, delusione e rabbia). È stato in quel momento che hai iniziato a pensare di realizzare un’inchiesta approfondita sul movimento calcio italiano o lo covavi da tempo?
Pensavo da tempo alla realizzazione di un prodotto di questo tipo e quella mancata qualificazione mi ha convinto a percorrere quella strada. Vedevo la nazionale come lo specchio del nostro calcio, ancora ferma ai fasti del 2006 e seduta su sé stessa, con una Serie A povera di giovani promettenti che puntualmente finivano o in panchina o nelle serie inferiori.
Vivaio Italia è un esempio di prodotto cinematografico/audiovisivo che si presta ad informare. Numeri, dati, testimonianze, interviste. Un’inchiesta fortemente giornalistica, asciutta, diretta, che fa riflettere andando dritto al punto. Dal punto di vista registico – tipo di riprese e montaggio – che documentario volevi girare?
Nulla di diverso rispetto al risultato finale. Volevo emergessero le figure che stanno provando a immaginare un futuro per il calcio italiano sia a livello tecnico, ma anche a livello sociale perché lo sport è beneficio per tutta la società. Uno stilo asciutto e dritto al punto mi sembrava l’idea migliore per andare su questa strada ed evitare invece di fare un prodotto centrato soprattutto sulle giovani promesse di cui già per altro si occupano progetti davvero ben fatti e ben avviati come la Giovane Italia del giornalista di Sky Sport Paolo Ghisoni. Di riflesso anche dal punto di vista registico, grazie alla collaborazione dei ragazzi di StarValley Studio, abbiamo volutamente mantenuto un registro sicuramente più giornalistico che narrativo.
In fase di produzione, sui social hai pubblicato diverse foto (o meglio, foto delle foto!) su diversi campioni che si sono messi in mostra durante il Torneo di Viareggio, (penso a Del Piero nel 1994, che segnò in finale su rigore alla Fiorentina). Che effetto ti ha fatto vedere quei ragazzi in foto?
Negli uffici dove si organizza il Torneo di Viareggio si respira ancora la storia di quei giorni. Per restare al passato recente fa sempre un certo effetto vedere un giovane Del Piero, Immobile e altri che sono passati per quel torneo dove in tanti si sono messi in mostra. Dall’altra parte fa invece impressione vedere quanti dei ragazzi vincitori del Viareggio si siano poi persi per strada a testimonianza di come per un giovane calciatore sia complicato tenere alto il livello tecnico, ma soprattutto la voglia di continuare.
I ragazzi di oggi non sono i ragazzi di ieri. Tra questi, anche io e te, nati nel 1986 e cresciuti negli anni ’90 – primi 2000. Secondo te quanto il mondo moderno – dominato dai social, dal fortissimo desiderio di fama e gloria (da raggiungere subito, al più presto, possibilmente senza troppa fatica e impegno) – influisce negativamente nel mondo del calcio giovanile?
Domanda soprattutto per sociologi, ma provo a risponderti. Sicuramente nell’approccio al calcio e allo sport in generale vedo da parte dei ragazzi meno serenità. Questo è dovuto sicuramente alla voglia di mettersi in mostra, anche sui social, ma frequentando i campi, soprattutto quelli della provincia non si può fare a meno di notare anche la pressione notevole che i genitori mettono sui ragazzi, i quali sembra che a volte facciano sport più per soddisfare i genitori che sé stessi. Viene meno forse il valore del divertimento nel gioco, che fa abbassare la frequenza con cui un ragazzo si ritrova un pallone fra i piedi, e questo come emerge dal documentario si ripercuote perfino sul livello tecnico dei ragazzi: meno si gioca, meno confidenza si dà al pallone.
Una volta lo sport educava (oltre alla famiglia, oltre alla scuola: la disciplina sportiva si tramutava in disciplina umana/civile), gli allenatori diventavano anche insegnanti e talvolta genitori. Da quello che hai visto fuori e dentro il rettangolo verde, oggi secondo te è ancora così?
La figura dell’allenatore è senza dubbio importante e più è giovane il calciatore più questa importanza aumenta. Il rapporto tra allenatori e ragazzi o bambini, per quello che vedo, non è molto differente rispetto a un tempo. Certamente una volta arrivati a una maturità anagrafica importante giustamente le pretese da parte dei preparatori aumentano, e ancora una volta la differenza la fa la formazione avuta in precedenza: le attività di base con i più piccoli sono il primo e più importante gradino del calcio giovanile in Italia. Se quelle attività con i bambini dai 5 anni in su mancano, mancano le fondamenta stesse del movimento.
Nel 2006, anno della nostra vittoria al Mondiale in Germania, usciva un libro molto bello, ricco di interviste a grandissimi allenatori di livello mondiale (Mourinho, Wenger, Ferguson, Capello, Lippi…), che si intitolava The Italian Job, scritto da Gianluca Vialli (con Gabriele Marcotti), immenso calciatore e uomo/capitano che non molla mai, nemmeno ora che sta giocando una partita personale molto delicata. In quel libro Vialli, che ha passato molti anni in Premier League, contrapponeva il settore giovanile inglese a quello italiano [in Inghilterra insegnano calcio anche a Scuola, puntano molto sull’aspetto fisico e, come prima cosa, insegnano i valori dello sport; in Italia, già da piccoli, i giovani calciatori sono trattati come “professionisti”, poca fantasia e molta tattica]. Tu che idea hai su questo aspetto?
Credo che il continuo rimbalzo di paragoni tra i settori giovanili italiani e quelli all’estero sia a volte un po’ ingeneroso, partendo anche da quello che ho visto girando questo documentario. Ci sono risorse importantissime e persone veramente preparate che a volte, e questo forse è il problema italiano, e non solo a livello sportivo, non vengono adeguatamente valorizzate. Tu citi giustamente la scuola e questo è un aspetto fondamentale per la crescita di una classe sportiva: come emerge dai numeri l’Italia è tra i Paesi europei dove si fa meno attività fisica in assoluto, e in questo la scuola ha sicuramente un ruolo che non gli fa onore. Aggiungiamoci poi che lo sport su appuntamento, con la stessa disciplina praticata per poche ore alla settimana non è l’ideale per formare un’atleta e non solo un calciatore. Sull’allenamento e sui valori ripetiamo ciò che abbiamo segnalato poco sopra, e cioè che il problema non sono tanto i valori veicolati dalle società ai ragazzi, ma sempre più spesso quelli veicolati dalle famiglie che esercitano una pressione enorme sui ragazzi dalla più tenera età, e questo non va mai bene. Il divertimento è valore fondante dello sport, se viene a mancare nei primi anni di attività è un male assoluto e non necessario.
Cosa pensi del ruolo – Capo Delegazione della Nazionale – che lo stesso Vialli potrebbe ricoprire a partire dal prossimo mese?
Il ruolo di Gianluca Vialli nell’organigramma della nazionale è sicuramente una buona notizia, come era una buona notizia quella di Roberto Baggio. Con Baggio non finì bene, preparò un progetto di largo respiro che non ebbe mai la possibilità di applicare per la poca lungimiranza della Federazione. L’auspicio è che Vialli porti il suo occhio e la sua esperienza con la libertà di agire che dovrebbe lasciare una Federazione più illuminata e che crede di più nei progetti a lungo termine e nei giovani.
A proposito, quest’estate Kean e Cutrone (due esempi di successo, due calciatori cresciuti nel vivaio, rispettivamente di Juventus e Milan) sono stati venduti in Inghilterra. Cosa hai provato?
Mi sarebbe piaciuto vederli entrambi giocare in Italia, ma anche il calcio e i nostri calciatori hanno aperto i loro confini e la Premier League è sicuramente un campionato tosto e per due giovani calciatori non può che essere una grande scuola o un posto dove fermarsi a lungo termine. Certo sono due casi molto diversi: Kean probabilmente nella Juventus avrebbe trovato pochissimo spazio quest’anno rischiando di rimanere troppo ai box. Diverso il discorso per Cutrone: fuori Piatek non mi sembra di vedere in questo Milan qualcuno alla sua altezza. Un peccato per uno come lui cresciuto al Vismara e poi approdato a Milanello a suon di gol, grande senso di responsabilità e voglia di fare.
Roberto Mancini ha esordito in Serie A neanche 17enne, come allenatore ha “lanciato” Balotelli. Secondo te è l’uomo giusto per rilanciare anche i giovani?
Credo sia l’uomo giusto. Ha coraggio nelle scelte che compie: si pensi a Zaniolo e Tonali, di fatto lanciati e fatti scoprire proprio dallo stesso Mancini in nazionale ancora prima che nei rispettivi club di appartenenza. Trovo che la sua filosofia possa giovare all’intero sistema che dovrebbe forse guardare più ai suoi settori giovanili che altrove.
Intervista di Giacomo Aricò