L’ho letto tutto d’un fiato. Avvincente, emozionante, necessario. E soprattutto: vero. Sto parlando di Postazione 23 – I Miei 100 Giorni a Beirut, il libro (edito da Edizioni Ares) che, attraverso la coinvolgente scrittura di Marina Crescenti, racconta la storia del bersagliere Franco Bettolini e della missione di pace “Libano 2” (avvenuta tra il 1982 e il 1984) sotto la guida del Generale Franco Angioni (che ha firmato la bellissima prefazione del libro). Era la prima volta, dopo la Seconda Grande Guerra, che un reparto italiano veniva spedito oltre i confini nazionali. Quella missione passò alla storia come una delle più riuscite operazioni militari in Medio Oriente.
Postazione 23
Era l’ottobre del 1983 quando Franco Bettolini, all’epoca solo diciannovenne, partì verso Beirut dopo un rigidissimo e sfiancante addestramento militare (il Generale Franco Angioni per quella spedizione scelse i soldati migliori). Bettolini, un giovane ragazzo di Binasco, si trovò catapultato, insieme ai suoi “fratelli” bersaglieri (26° battaglione “Castelfidardo”), in un territorio di guerra. La Beirut che lo accolse (lo sbarco, il 15 ottobre 1983) era una città fantasma, avvolta da miseria e disperazione, pervasa dal “puzzo” di morte, in ogni angolo. Il bersagliere protagonista di questa storia si trovò a contatto con la popolazione locale, ormai totalmente inerme. Donne e bambini si legarono al contingente italiano in quel momento impegnato nel difficile compito di mostrare fermezza e umanità allo stesso tempo. La postazione di Bettolini è la 23 (ecco spiegato il titolo), a tutela del campo di Shatila, accanto alla fosse comune.
Ogni sensazione ed ogni emozione vissuta in prima persona da Franco Bettolini ci viene restituita dalla scrittura diretta, precisa e profonda di Marina Crescenti. Grazie al modo con cui la co-autrice ha catturato e trasformato in racconto il flusso dei ricordi di Franco, il lettore entra nella storia: tocca, respira, suda e si raggela, corre, si stanca, ride, si spaventa, tira profondi sospiri di sollievo, si commuove. Più sfogliamo le pagine, più ci sentiamo Franco. Dalla sua semplice realtà quotidiana di Binasco – tra famiglia (fortissimo il legame con sua sorella e con i suoi genitori) e gli amici del bar (tutti più grandi di lui e ognuno, a suo modo, una guida) – al massacrante (ma decisivo) servizio militare, fino ad arrivare ai tremendi momenti vissuti in Libano (su tutti il terribile attentato del 23 ottobre 1983). La sua anima ci parla: si susseguono paure e orrori, speranze e sofferenze, piccole grandi gioie e lacrime di disperazione. Sembra di essere lì con lui, con gli altri. Anche noi, come quei soldati, siamo immersi in un’esperienza segnante che ci fa riflettere sull’importanza della vita e dei legami (i gesti, i non detti, le emozioni tra le righe, sono sempre le più belle e profonde manifestazioni d’amore e di amicizia). Anche noi soffriamo la lontananza da chi aspetta il nostro ritorno a casa e da chi non vediamo l’ora di riabbracciare. Su ogni aspetto raccontato nel libro svetta però l’orrore della guerra. Senza senso, mai, da sempre.
Intervista a Franco Bettolini e a Marina Crescenti
La profonda umanità di Franco Bettolini e dei suoi “fratelli” è la cosa che mi è rimasta più impressa del libro: Postazione 23 è una dichiarazione di pace, è una storia di coraggio e fratellanza, è un messaggio positivo ed educativo per i diciannovenni del 2020. Leggere questo testo è stato per me come vedere una pellicola anti-bellica. “Sarebbe un bel sogno trasformare questo libro in un documentario o addirittura in un film, credo che possa far capire in modo diretto cosa vuol dire la parola Guerra, credetemi una brutta cosa” mi dice Franco Bettolini quando gli racconto questa mia suggestione. Chissà. Ora però lascio spazio alla chiacchierata che ho avuto con lo stesso Bettolini e con la bravissima scrittrice Marina Crescenti.
Franco, prima di tutto noi dobbiamo ringraziarla ancora per il coraggio che, in giovane età, ha dimostrato nei suoi 100 giorni a Beirut. Certi orrori non potrà mai cancellarli. Quanto però questo libro l’ha aiutata a rielaborare questa esperienza indelebile e drammatica? Quanto questo lavoro di memoria è stato per lei terapeutico?
Grazie a Voi innanzitutto. Il coraggio in certe situazioni viene automatico, hai la consapevolezza che stai facendo tutto il possibile e affronti la paura con naturalezza. Ovviamente certi avvenimenti li porterai con te tutta la vita: è impossibile dimenticarli. Credo che, personalmente, Postazione 23 abbia avuto un impatto forte, anche terapeutico, 37 anni sono tantissimi, e con questo lavoro ho avuto la possibilità di esternare tutto, gioie e dolori.
Marina, la sua penna ha tramutato in parole i ricordi e le emozioni vissute da Franco Bettolini. Un nodo profondo che aveva dentro da oltre trent’anni. Quando vi siete incontrati, come ha vissuto il racconto di Franco? Cosa ha significato per lei ascoltare la sua storia?
Ascoltare per la prima volta la storia di Franco mi ha fatto tornare nel passato. In quel passato. I miei ricordi di Beirut distrutta, degli scontri a fuoco, della povera gente vestita di stracci, gli occhi spalancati dei bambini di fronte alla miseria, gli eccidi, sono tornati immediatamente a galla, come fossero stati sempre lì, in attesa di qualcosa che li liberasse: le parole di un Bersagliere che lì c’era stato. Ho compreso immediatamente che si trattava di una storia molto interessante e ho accettato subito di trasformare in un libro la sua esperienza di soldato di leva – non volontario – mandato in “missione di pace”.
Franco, mi ha colpito molto la parte legata a Binasco ed alle sue famiglie: quella di origine (belli i ricordi legati al rapporto con sua sorella), e quella del bar (con tutti i suoi amici, tutti più grandi di lei). Quanto queste famiglie sono state per lei importanti durante la sua permanenza a Beirut?
Binasco è un piccolo paese e io devo tutto a quel bar. La mia adolescenza è passata da lì, senza dimenticare mia sorella, colonna portante dei mie pensieri. La mia famiglia ha sofferto tantissimo ma da loro ho avuto un grande affetto e tutto l’amore possibile.
Marina, lei, anche grazie a vividi ricordi di Bettolini, riesce – soprattutto nella tragica parte riguardante Beirut – a trasportarci in quel momento preciso e in quel posto preciso. Il lettore non legge, ma “vive” quell’esperienza. Una scrittura per immagini che, essendo basata su una storia reale, aumenta l’impatto di questo testo. Era il suo intento rendere questo libro così “immersivo”?
Un intento, certo, ma non consapevole. Quando scrivo non mi pongo obiettivi che non siano quelli di immedesimarmi completamente nei personaggi e nelle cose che sto descrivendo. Devo diventare quella persona, vivere le sue emozioni; devo trovarmi esattamente in quel luogo, facendo miei i rumori, gli odori, i colori. Se poi tutto ciò determina una narrazione nella quale il lettore si immerge, vivendo “in prima linea” le vicende e la psicologia dei personaggi, direi che ho fatto bene il mio lavoro. Perché è questo che deve riuscire a fare lo scrittore: provare, sentire, vivere, per fare provare, fare sentire, fare vivere le sue emozioni al lettore. Altrimenti, l’equazione sarà sempre questa: non provo = non trasmetto = lettore indifferente allo scritto.
Franco, lei si è trovato catapultato molto giovane in una situazione ad altissimo rischio dopo un ferreo periodo di addestramento durante il servizio militare. Quanto la leva (oggi non più) obbligatoria, l’ha preparata adeguatamente per la missione militare a Beirut?
Ho avuto un addestramento durissimo che, francamente, all’inizio non capivo. Oggi però se sono qui è grazie a tutti i miei superiori che mi hanno formato alla perfezione come soldato ma soprattutto come uomo.
Marina, quando si diventa il tramite di una storia così forte e ricca di significati, ci si prende anche una grande responsabilità, ovvero far passare un messaggio, che vada oltre alla descrizione dei fatti. Penso alla grande umanità dei soldati, spesso in lacrime e terrorizzati; penso alle vittime degli attentati (commovente nel libro la tragedia di Patrick); penso ai bambini e alle famiglie devastate di Beirut, tra la polvere e il sangue. Postazione 23 è un grande manifesto antibellico, che si schiera con forza contro ogni forma di guerra. Un promemoria che diventa necessario soprattutto per il delicato momento storico che stiamo vivendo. È corretto?
Sì, è corretto. La Missione di Pace Libano 2 è la chiara dimostrazione che la guerra può essere combattuta con la pace. Il compito principale per il quale erano stati addestrati i soldati di leva italiani, era quello di proteggere i 3 campi palestinesi, due dei quali, Sabra e Chatila, erano stati teatro degli eccidi del 16 settembre 1982 in cui furono trucidate circa 2 mila persone, tra cui vi erano anche donne e bambini. I soldati italiani che hanno vissuto l’esperienza della Libano 2 erano stati anche addestrati a difendersi e, nei casi estremi, a fare fuoco. Non è mai successo, per fortuna. Ma questo non è stato un caso. L’Italia, con l’America, la Francia e la Gran Bretagna, è andata a Beirut non più sotto l’egida dell’ONU. Il Generale Franco Angioni non volle ridipingere di verde tutti i mezzi bianchi (per ipotesi di bandiera ONU) che sarebbero andati in Libano perché, disse, noi non abbiamo bisogno di mimetizzarci, al contrario, dobbiamo essere ben visibili. E nessuno avrebbe potuto accampare la scusa di avere attaccato un mezzo italiano, sfruttando l’alibi di averli confusi con altre organizzazioni diverse. Inoltre, l’ospedale da campo italiano voluto dal Generale ospitava quotidianamente tutta la popolazione, a prescindere dall’estrazione religiosa. Furono curati più di 60 mila feriti. Gli italiani erano, pertanto, benvoluti da tutti, per la loro umanità e la grande generosità. La stessa cosa non si poteva dire dei soldati francesi e americani.
Franco, oggi invece le nuove generazioni stanno crescendo sempre più virtualmente connesse e fisicamente isolate. Secondo lei la sua esperienza può essere in qualche modo d’insegnamento per loro? Attraverso questa storia, c’è un messaggio che vuole lanciare ai ragazzi del 2020 che hanno l’età che aveva lei quando è partito?
Oggi è tutto diverso, non voglio dare giudizi sui ragazzi di oggi, siamo state generazioni diverse. Non mi reputo un ambasciatore della pace, sono stato un soldato che ha servito il proprio paese. Valori che forse oggi sono andati un po’ persi. Sono fiero di quella missione, sono orgoglioso di essere stato a Beirut ad aiutare una popolazione (palestinese), martoriata da una guerra assurda. Se posso lanciare un messaggio ai giovani d’oggi, senza presunzione, dico loro che nella vita bisogna cercare sempre di mediare anche nella quotidianità.
Marina, oltre alle parole che ha scritto, nel libro ci sono anche delle foto molto belle e significative che aiutano il lettore ad immaginare la storia di Franco Bettolini. Secondo lei Postazione 23 – I Miei 100 Giorni a Beirut, merita di essere raccontata sul grande schermo? Sia in versione film, sia (forse più semplice) in versione documentario. Secondo me sì.
Anche secondo me, ma non perché io ritenga Postazione 23 un bel libro (com’è che si dice? Ogni scarrafone è bello a mamma sua), ma perché è una testimonianza di pace in un contesto di guerra. Il messaggio che racchiude in sé è che si può combattere con le armi della Pace. E oggi, come da sempre, sarebbe fondamentale che qualcuno – non solo il Generale Franco Angioni – lo capisse. Concludo con uno stralcio di intervista di Giovanni Minoli al Generale: “Generale, quali sono secondo lei gli elogi all’Operazione di Peace Keeping che non sono stati meritati?” “Nessuno”.
Intervista di Giacomo Aricò