I vitelloni sono seduti al bar a perdere il giorno; una sigaretta tira l’altra, girati verso il sole anche d’inverno come lucertole in bella posa. Prima regola: divertirsi; seconda: non lavorare. Non necessariamente in quest’ordine. Erano gli anni Cinquanta quando Federico Fellini, ne I Vitelloni, raccontava di giovani scanzonati e volutamente abulici in un’Italia che cresceva florida dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Mentre gli altri pensavano a fare i danè, il gruppetto di scapestrati, capeggiato da un Alberto Sordi in piena forma, si permettevano gozzoviglie, amori clandestini, pernacchie e gesti dell’ombrello e furbizie d’ogni tipo e misura per campare alla meglio. Ma tanto quella era l’Italia del boom economico, che di lì a poco avrebbe sconvolto tutte le vite degli abitanti del Belpaese; era l’Italia che si avvicinava speranzosa ad una nuova era.
L’era del progresso tecnologico, della Tv, della velocità, della conquista dello spazio, dei film americani e della spensieratezza. I desideri di libertà, maturati dopo la guerra (intesa come apice di vent’anni di dittatura), si insinuavano nelle nuove generazioni e si spandevano a macchia d’olio. Il Paese era come una lampada di Aladino, da cui si materializzavano i sogni di tutta la popolazione, almeno fino alla fine degli anni Sessanta. E la società era lanciata in una (nefasta?) corsa all’oro, a volte coi soldi degli altri (furono gli States, attraverso il Piano Marshall, a permettere all’Europa dell’ovest di ricostruirsi).
Roma, quarant’anni dopo. Un uomo dai capelli brizzolati si aggira sulla terrazza del suo appartamento. Il sole sta calando tra gli archi del colosseo, davanti ai suoi occhi; una luce color arancio si intona con la bevanda nel suo bicchiere: un ultimo whiskey in santa pace, prima della festa, come quasi ogni sera. E’ il protagonista de La Grande Bellezza: il giornalista Jep Gambardella interpretato da Toni Servillo, che veste i panni di un vitellone invecchiato, disilluso da una vita che, pur se vissuta con clamore e ridondanza, non l’ha appagato. Tutti quei giorni trascorsi a sognare di più, a volere di piu’, tra auto di lusso, donne e mondanità, hanno tolto a Jep la consapevolezza di se stesso, del suo ruolo sociale.
In questo senso, nella pellicola da Oscar di Sorrentino, il protagonista prova a riconquistare la sua umanità perduta tra una festa e l’altra, trenino dopo trenino; la cerca nella bellezza della città eterna. Ma si accorge, con profondo rammarico, che più è bella Roma (con i suoi monumenti e gli angoli antichi) più è grande la disumanità di chi, come lui, la abita. Allora è solo; spogliato di ogni umano slancio verso il prossimo, di ogni sogno.
Per Jep (la cui più grande illusione ora è data dal potere di far fallire le feste) e per i suoi compagni di trenino, sono finiti i tempi d’oro: il boom economico è arrivato al capolinea, con esso anche i soldi e la gioia che l’accompagnavano. Quel che resta è soltanto il fasto (ormai ridicolo e fuori luogo) di un tempo passato: un libro, pubblicato alcuni decenni prima da Jep, i trucchi pesanti delle sue amiche e l’ipocrisia dei loro mariti/amanti nei ritrovi perbenisti che nulla hanno a che vedere con la profondità dei sentimenti. E poi, non dimentichiamoci di loro: quei vitelloni canuti e stanchi alla deriva, che non sanno più tornare.
Tommaso Montagna