Lo scorso 11 gennaio si è spento a quasi 98 anni (li avrebbe compiuti il 24 gennaio) uno dei più grandi attori che il Teatro ed il Cinema Italiano abbiano mai avuto: Arnoldo Foà. Artista a tutto tondo perché, oltre alla recitazione, Foà era anche scrittore, pittore e scultore, un artista eclettico o, più semplicemente, un Maestro. Da qualche mese si può leggere tutta la sua vita in un bellissimo libro dal titolo Io, il Teatro – Arnoldo Foà racconta se stesso (Rubbettino editore, collana Zonafranca), scritto dalla sua ultima moglie Anna Procaccini, sposata nel 2000. Tra le pagine di questo libro scopriamo il lato più autentico e umano di Arnoldo Foà, il suo carattere passionale e istintivo, la sua sete d’arte e soprattutto lo sconfinato amore per il palcoscenico (c’è anche un’intervista della Procaccini al compianto marito).
Partiamo dal principio. Chi era quell’Arnoldo che da ragazzo “fuggì” dalla bottega del padre per diventare attore?
Era una persona consapevole dei propri talenti, e della possibilità di poterli esprimere al meglio; era pieno di entusiasmo, di vitalità e di curiosità per il mondo, qualità che neanche i duri anni della guerra e delle leggi razziali hanno scalfito o appannato. Fuggì per discussioni con il padre, ma in realtà, nel profondo, per il desiderio di mettersi alla prova.
Il teatro e la recitazione come espressione di se stesso. Qual è stata la motivazione più grande che l’ha portato a Roma? Cosa sognava di regalare al pubblico italiano con la sua arte?
La molla che lo fece andare via fu una frase di un dipendente del padre che gli disse “Arnoldo, faccia la fame ma veda il mondo”, suggerimento che non ha mai dimenticato. Il suo insegnante di recitazione gli suggerì di presentarsi a Roma e di incontrare il grande regista Alessandro Blasetti, che, dopo un vivace colloquio, decise di sottoporlo all’esame per il Centro Sperimentale di Cinematografia, esame brillantemente superato. Non so se e cosa sognasse di regalare al pubblico, sicuramente la recitazione, come ha più volte detto pubblicamente, era per lui un percorso intimo, un confronto serrato con le sue qualità e il suo talento, e con la capacità, e la possibilità, di trasmetterli al pubblico.
Cos’è che ricorda maggiormente di Foà come attore? Qual era la sua dote migliore?
L’assoluta modernità della sua recitazione, anche quando aveva superato i 90 anni. Non c’era mai un gesto o un’espressione in più di quelle richieste dal personaggio, anzi tendeva a togliere più che ad aggiungere. Conosceva benissimo pubblico e palcoscenico, ma ogni volta era una sfida, con se stesso prima e col pubblico poi, ma sempre sottraendo e mai indulgendo in certi atteggiamenti un po’ gigioneschi che spesso caratterizzano i grandi attori soprattutto ad una certa età. La semplicità e la naturalezza della sua recitazione erano in realtà frutto di uno studio appassionato e complesso.
Tecnica e sentimento: c’è un gesto, una frase, un’opera in particolare che riescono a riassumere, secondo il suo punto di vista, tutta l’anima di Foà a teatro o al cinema?
Sono 3 le cose che mi vengono in mente, una più privata: ancora pochissimi anni fa, scendendo dal palcoscenico, chiedeva sempre “Come sono andato?”. Era un Maestro, un attore straordinario, ma nonostante fosse consapevole della sua arte aveva bisogno comunque di sicurezza. In teatro sicuramente la sua lettura della Commedia di Dante: credo, e non sono io a pensarlo, che fosse probabilmente uno dei più grandi lettori di Dante, perché riusciva a renderlo in modo sublime e assolutamente moderno e chiaro, anche nei passaggi più oscuri e difficili. In cinema mi viene in mente Il Processo di Orson Welles, in cui è uno straordinario interprete: nel ruolo del commissario condensa il suo concetto di recitazione asciutta e incisiva.
Dal libro si scopre spesso un uomo istintivo, senza peli sulla lingua che dice quello che pensa in modo diretto. Ci vuole accennare questo suo lato, se vuole anche attraverso un aneddoto.
Era sicuramente così, era convinto del dovere della sincerità, anche quando forse non era proprio così necessario esprimerla… Ricordo un episodio, riportato anche nel libro: al termine di uno spettacolo con Alessandro Haber, Arnoldo volle andare in camerino a salutarlo, e gli disse “secondo me non hai centrato il personaggio”. Haber ovviamente non gradì questo commento, ma alla critica situazione pose fine Michele Placido che fece uscire quasi di peso Foà dal camerino, liberando così il povero Haber!
Oltre cento i film in cui recitò per il cinema. Qual è il suo preferito e perché.
Confesso di non averli visti tutti, e di essere molto legata agli ultimi film, tra cui La Febbre di D’Alatri, ma due, se posso, sono i miei preferiti: I Cento Cavalieri di Vittorio Cottafavi, in cui Foà gioca meravigliosamente con la parte più comica della sua recitazione e anche con quella più intensa, ed inoltre era bellissimo! E poi Gente di Roma di Ettore Scola, ruolo straordinario in uno degli episodi del film che gli valse il Nastro d’Argento, ma soprattutto film che ha segnato l’incontro fondamentale con Ettore Scola, non solo a livello artistico ma anche umano.
Intervista di Giacomo Aricò