Da giovedì 27 agosto Movies Inspired porta nei nostri cinema Quattro Vite, la pellicola diretta da Arnaud Des Pallières con protagoniste quattro diverse attrici – Adèle Haenel, Adèle Exarchopoulos, Solène Rigot, Vega Cuzytek – che incarnano un’unica eroina.
Il film
Ritratto di una donna attraverso quattro età della sua vita. Una bambina di campagna che cade in un tragico gioco a nascondino. Un’adolescente che passa da una fuga all’altra e da un uomo all’altro, perché tutto è meglio del triste ambiente famigliare. Una giovane provinciale che si trasferisce a Parigi e sfiora la catastrofe. Infine, una donna realizzata che si crede al sicuro dal suo passato.
Arnaud Des Pallières
Per entrare nel vivo del film, vi presentiamo un estratto dell’intervista rilasciata da Arnaud Des Pallières.
Come è nato questo film?
Nel 2010 ho chiesto a Christelle Berthevas, co-sceneggiatrice del mio film Michael Kohlhaas, se voleva raccontarmi la sua storia personale, che mi affascinava per due motivi. Per prima cosa, era la vita di una donna, ma di una donna di origini rurali e popolari, molto lontane dalle mie. Ero consapevole che non avevo ancora prestato ai personaggi femminili la stessa attenzione di quelli maschili. Volevo recuperare il ritardo disegnando un ritratto di donna il più ricco e complesso possibile. Per entrare nei panni di una donna, volevo iniziare da una vita reale, non da un romanzo o da un racconto, mettendomi sotto l’autorità e le sensibilità di chi aveva vissuto gli eventi. Faccio film per sperimentare vite diverse dalla mia. Sapevo quanto fosse stata crudele, cupa, eccessiva la prima parte della vita di questa donna e volevo raccontarla perché mi sembrava esemplare. Era la lotta di una donna per la sua libertà, e volevo viverla io stesso, per poi farla rivivere allo spettatore.
In certi momenti, in gran parte grazie alla luce, le quattro attrici si assomigliano.
Prima di girare, mi sono posto alcune regole. Convinto che una verosimiglianza da documentario fosse una garanzia di forza e durata, volevo un film più vicino possibile alla realtà. Ho lasciato che la cinepresa seguisse il punto di vista della protagonista, per rafforzare la coerenza della recitazione delle quattro attrici. Volevo girare in modo che tutto passasse attraverso la percezione di lei. Ciò che il personaggio non ha visto, non lo avrebbe visto nemmeno lo spettatore. Infine, ho deciso di usare un solo obiettivo, per costringermi a inventare una scrittura specifica per il film, rafforzando nel contempo la sua unità stilistica. Queste poche regole hanno contribuito alla coerenza della recitazione delle attrici. Sono regole semplici, che ti vincolano, ma che producono effetti potenti. Attenermi a questa riduzione volontaria dei
miei mezzi di espressione cinematografica, nonostante un’idea forte di sceneggiatura, è probabilmente ciò che ha permesso al film di essere prima di tutto un’esperienza emotivamente toccante per lo spettatore. Nel montaggio, questa “semplicità volontaria” si è rivelata un vantaggio per il film, che ha guadagnato in frontalità e in forza. Le quattro parti – Kiki, Karine, Sandra, Renée – sono l’una il fantasma dell’altra e producono una specie di allucinazione. Grazie al ritmo serrato del film e all’assenza di separazione tra le parti, le sensazioni si sovrappongono, riuscendo a formare un’unica figura. Volti diversi che si sovrappongono per creare l’illusione di un essere unico e coerente, questo è il principio fondamentale del cinema…
Voleva giocare con lo spettatore?
Voglio piuttosto che lo spettatore giochi con il film. Faccio film come kit, film da costruire. È lo spettatore, con la sua sensibilità, che riempie i buchi e costruisce il film. Piuttosto che fare film per tutti, voglio fare un film per ciascuno. Quattro Vite è una specie di ritratto cubista che offre, speriamo, tanti punti di vista quanti saranno gli spettatori. Fare un film è come edificare una casa per lo spettatore. Molto spesso, la casa ha una sola porta – il personaggio principale, che lo spettatore segue dall’inizio fino alla fine e con il quale si identifica. Nel film le porte sono quattro. Alcuni si affezioneranno alla bambina, facendone il centro attorno al quale si svolge il racconto, altri alla ragazza in fuga o alla
giovane provinciale che arriva a Parigi, oppure alla donna che aspetta un bambino. Abbiamo seminato indizi e creato personaggi “graffette”,
incarnati da Gemma Arterton, Sergi López e Nicolas Duvauchelle, che sono comuni a due parti e garantiscono l’unità della storia. Il film è progettato per toccare lo spettatore in profondità, perché viene chiamato a diventare coautore.
La sessualità è il cuore del film. Possiamo dire che tutto, qui, è un problema di transazioni?
La mia eroina mi affascina perché, dalla sua prima adolescenza fino ai vent’anni, interagisce davvero con il mondo solo attraverso l’amore e la sessualità. È nello scambio amoroso che scopre universi, stabilisce alleanze, stringe amicizie. Per Karine (poi Sandra), la transazione amorosa e sessuale è la vera modalità della conoscenza. È un elemento costitutivo della condizione femminile che Christelle ha voluto mettere in luce e trasmettermi. Credo che sia vero, raramente raccontato e molto toccante. Le donne lo sanno. Gli uomini, invece, tendono a deviare l’idea della negoziazione sessuale verso il concetto disprezzato di prostituzione, cosa che è profondamente ingiusta. Uno degli obiettivi del film è dare dignità alla ricerca sensuale, sessuale, amorosa, sociale e politica di questa giovane donna. Attraverso i suoi slanci, i suoi entusiasmi, i rischi che corre – troppo spesso giudicati secondo i criteri di una morale antica – vedo al contrario una generosità reale e un travolgente appetito per la vita. Una giovane donna di bassa estrazione, ignorante, senza soldi, senza potere di classe, senza potere professionale, ha solo se stessa per andare avanti nella vita. È con il suo viso, la sua voce, il suo sorriso, la sua grazia, il suo corpo, il suo potere di seduzione, che trova un po’ di uguaglianza con uomini (e donne) già dotati di potere e preparati per la vita. Per l’uomo è facile giudicarla, lui che crea il mondo e per il quale il mondo è fatto.
Tuttavia, il film non è contro gli uomini.
È quello che ha detto Adèle Haenel la prima volta che ha visto il film. Perché anche se gli uomini tendono, più o meno consapevolmente, a voler dominare, a volte sono in difficoltà nel dover incarnare rigidamente questo ruolo. È soffocante per l’uomo come per la donna trovarsi costretti nell’immagine senza sfumature del “genere” a cui appartengono. Volevo che questo si avvertisse attraverso tutti i maschi del film. Sono convinto che uomini e donne usciranno da questa trappola solo al prezzo di una reciproca indulgenza, ma soprattutto del riconoscimento della loro profonda alterità.
Il suo è un film femminista?
Ho realizzato il film con il desiderio di avvicinarmi a ciò che è una donna. Volevo vedere attraverso i suoi occhi questo mondo di uomini in cui le donne devono imparare a vivere. Amo e ammiro il mio personaggio. Amo e ammiro senza riserve tutto quello che fa. Sarei felice se alcune donne si sentissero meno sole dopo aver visto il film, che si sentissero amate e rispettate per quello che sono, non per ciò che gli uomini vorrebbero che fossero. Un giorno, una donna è venuta a trovarmi dopo la proiezione del film. Raggiante, quasi con aria di sfida, mi ha detto: “Questo film mi rende felice e orgogliosa di essere una donna”. Se è questo che intende, allora sì… Anch’io sarei felice e orgoglioso di aver girato un film femminista.