Bellezza e talento, Faye Dunaway – che giovedì 14 gennaio 2021 compie 80 anni – è senza dubbio un’icona del grande cinema degli anni Sessanta e Settanta. Considerata una delle più grandi attrici della sua generazione, ha vinto un Premio Oscar, tre Golden Globe, un BAFTA e un Emmy, entrando di diritto nella storia del cinema mondiale.
Da Gangster Story all’amore con Mastroianni
Dorothy Faye Dunaway (questo il suo nome completo) inizia la sua strada nella recitazione a Broadway, negli anni ’60. Allieva di Elia Kazan al Lincoln Center Repertory Theater di New York, il debutto a teatro avviene in A Man for All Seasons (Un Uomo Per Tutte Le Stagioni) di Robert Bolt (dove sostituisce l’attrice che interpretava la figlia di Tommaso Moro). Nel 1967, l’esordio al cinema è fologarante. Dopo due ruoli minori in E Venne La Notte (regia di Otto Preminger, con Jane Fonda) e Cominciò Per Gioco (di Elliot Silverstein, con Anthony Quinn) per Faye arriva subito la prima grande svolta della carriera nel film cult Gangster Story diretto da Athur Penn. Lei recita al fianco di Warren Beatty e i due sono i mitici Bonnie e Clyde. La sua prova nei panni di Bonnie Parker le vale la sua prima candidatura agli Oscar. Nel 1968, un anno dopo, è al fianco di Steve McQueen ne Il Caso Thomas Crown di Norman Jewison e viene scritturata da Vittorio De Sica per Amanti. Ed è proprio sul set italiano che si innamora di Marcello Mastroianni (i due stranno insieme tre anni).
L’Oscar per Quinto Potere
Fatto ritorno ad Hollywood, la Dunaway ritrova due registi che l’hanno già quidata: Elia Kazan che la dirige ne Il Compromesso (1969, con Kirk Douglas) e Arthur Penn per Il Piccolo Grande Uomo (1970, con Dustin Hoffman). Dopo diversi film minori, nel 1974 torna alla ribalta grazie al maestro Roman Polanski che la sceglie per il neo-noir Chinatown, al fianco di Jack Nicholson: arriva la seconda nomination agli Academy. Nello stesso anno prende parte al grande cast de L’Inferno di Cristallo di John Guillermin (al fianco di interpreti del calibro di Paul Newman, Steve McQueen, William Holden e Fred Astaire). Nel 1975, diretta da Sydney Pollack, affianca Robert Redford nel thriller politico I Tre Giorni Del Condor, mentre nel 1977 arriva l’Oscar della vita, quello come Miglior Attrice Protagonista per Quinto Potere di Sidney Lumet. Il film, una storia di denuncia sugli abusi della cronaca e del potere massivo della televisione (d’informazione), le fa vincere anche un Golden Globe. Gli anni ’70 si chiudono poi con altri tre film: La Nave Dei Dannati (1976, di Stuart Rosenberg), Occhi di Laura Mars (1978, di Irvin Kershner) e Il Campione (1979, del nostro Franco Zeffirelli).
A lei il primo Leopard Club Award
Negli anni ’80 la carriera della Dunaway volge verso ruoli più maturi, spesso in film indipendenti, a partire dalla sua interpretazione in Mammina Cara (1981, di Frank Perry), dove offre un indimenticabile ritratto di Joan Crawford (che però non viene apprezzato dalla critica). Negli anni successivi Faye si dedica maggiormente al teatro e alla televisione (viene diretta anche da Alberto Lattuada nello sceneggiato Cristoforo Colombo, dove interpreta la regina Isabella di Castiglia), ma partecipa ancora a film come il drammatico Barfly – Moscone da Bar (1987, di Barbet Schroeder), La Partita (1988, di Carlo Vanzina) e In Una Notte di Chiaro di Luna (1988, di Lina Wertmüller). Nel 1993 torna Emir Kusturica la rilancia – facendola duettare con Jerry Lewis e Johnny Depp – nella surreale commedia drammatica Il Valzer Del Pesce Freccia. Tra gli ultimi titoli, citiamo Don Juan De Marco – Maestro D’Amore (1995, di Jeremy Leven, dove affianca di Marlon Brando), L’Ultimo Appello (1996, di James Foley, con Gene Hackman, lei interpreta un’alcolista), Giovanna D’Arco (1999, di Luc Besson, il suo è un cameo) e, entrando nel nuovo millennio, una nuova direzione italiana ne La Rabbia di Louis Nero (2008).
Nel 2013 il Locarno Film Festival le attribuisce il primo Leopard Club Award: premio che rende omaggio a una grande personalità del cinema che attraverso il suo lavoro è riuscita a segnare l’immaginario collettivo. Forse è questo il suo riconoscimento più grande.