Lunedì 18 ottobre la Cineteca di Bologna porterà nei nostri cinema City Hall, il nuovo documentario diretto dal maestro Frederick Wiseman che l’impegno del governo della variegata città di Boston – guidato dal Sindaco Walsh – per riuscire a offrire i servizi ai cittadini, occupandosi anche delle priorità politiche, che comprendono giustizia razziale, edilizia accessibile, azioni sul clima, e i problemi collegati a chi non ha una casa.
Il documentario
Da oltre mezzo secolo Wiseman indaga e documenta la vita delle istituzioni (culturali, ma non solo), maestro di un cinema che interroga il reale con uno sguardo lucido e militante, mai imparziale eppure ‘giusto’, per usare un termine a lui caro. Dopo l’Università di Berkeley, la National Gallery e la Public Library di New York, in City Hall ritorna nella natia Boston per raccontarci ‘dal di dentro’ il governo di una grande città con l’ampio spettro di servizi che spesso diamo per scontati, dalla polizia, ai vigili del fuoco, alla sanità, fino alle politiche per la giustizia razziale, l’edilizia accessibile, le azioni sul clima. Per “dimostrare che è necessario avere un governo se si vuole vivere bene insieme“.
Frederick Wiseman
Per esplorare il documentario riportiamo di seguito un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Frederick Wiseman.
City Hall, che negli Stati Uniti esce in periodo preelettorale, è il suo film più dichiaratamente politico da molti anni a questa parte. Lei appartiene alla generazione che si è dedicata al documentario grazie all’avvento delle macchine da presa leggere e del suono in presa diretta, e per la quale la mobilità tecnica andava spesso di pari passo con una spiccata coscienza politica.
Il film che più mi colpì quando volevo “fare film” senza ancora pensare in termini di finzione o di documentario è Mooney versus Fowle di James Lipscomb, con D. A. Pennebaker alla macchina da presa, sulla rivalità tra due allenatori di squadre di football del liceo durante un campionato a Miami. A parte il fatto che amo il football, quel documentario mi fece veramente intravedere le possibilità delle nuove attrezzature cinematografiche. A quel punto mi venne l’idea di ritornare a Bridgewater, l’ospedale psichiatrico giudiziario dove portavo i miei studenti quando insegnavo giurisprudenza, e che mi aveva segnato in maniera indelebile.
Come filmare elevando quello che lei definisce il “livello di analisi”?
Non ho una risposta preconfezionata sul come conseguire una forza d’analisi senza risultare didascalici. Sono costretto a fare un film per me, senza pensare agli spettatori, oppure presupponendo che il pubblico sia tanto stupido e tanto intelligente quanto me. Ma quello che spero, soprattutto perché ho letto molta letteratura – i racconti di Nathaniel Hawthorne, di Edgar Allan Poe, Stephen Crane, Henry James, che ammiro enormemente, Nathanael West… –, è che i miei film riflettano la complessità umana, come può fare il romanzo.
I suoi film sono sempre stati particolarmente attenti alle divisioni territoriali, all’assegnazione di razza e classe sociale, senza peraltro commentarle direttamente.
Va detto che dal 1966 al 1970, oltre a girare film, lavoravo su questioni sociali legate alla politica: il governo di Lyndon B. Johnson aveva sovvenzionato ricerche sull’edilizia popolare, sul legame tra povertà ed etnicità, sulle race relations. Avevo fondato con un amico uno studio di consulenza che era la mia fonte di reddito. E montavo i miei film la sera e durante il fine settimana. Sono tutti film politici, ma in maniera a volte poco evidente. Law and Order, per esempio, nel 1967 non era considerato politico ma oggi sì, alla luce delle recenti violenze della polizia: oggi non si percepisce allo stesso modo la scena della manovra di soffocamento sulla prostituta. Anche Welfare è politico: la lunga scena in cui una coppia chiede i sussidi sociali di emergenza e si vede l’uomo, egli stesso ex dipendente della previdenza sociale, mentire sfacciatamente, è una delle mie preferite. La domanda che pone è: lo Stato deve offrire assistenza ai bugiardi? […] I miei soli film apertamente “sulla” politica sono State Legislature e City Hall, ma Public Housing e Belfast, Maine e la maggior parte degli altri mostrano aspetti dell’attività dello stato.
In City Hall la politica si incarna in un uomo, Marty Walsh, il sindaco di Boston. Un formidabile storyteller: non esita ad attingere esempi dalla sua vita privata, il cancro cui è sopravvissuto da bambino, il costo dei farmaci di suo padre o il passato da alcolista.
È al centro del film, è vero, anche se scene come quella dell’assessore all’urbanistica che visita un complesso in costruzione o quella del derattizzatore che interviene nell’appartamento di un veterano di guerra sono altrettanto importanti. Mostrano che la città svolge un ruolo negli aspetti più quotidiani e personali della vita dei cittadini, dato che deve approvare i progetti di costruzione di una nuova abitazione, verificarne la conformità. Il sindaco fa tre discorsi al giorno ed è vero che indossa, anche letteralmente, diversi panni, svolge diversi ruoli. Ma che i politici siano attori non è una novità, e se fosse stato un cattivo sindaco si sarebbe visto nel film. Per me Marty Walsh è l’esatto opposto di Trump, parla di alloggi sociali, di accoglienza degli immigrati, di naturalizzazioni, di aumentare l’impiego per le minoranze. Penso che sia sincero perché vedo che fa quello in cui crede. La diversità etnica di cui parla si ritrova nella sua squadra, a tutti i livelli.
Il montaggio, a cui dedica interi mesi di lavoro, corrisponde per lei a una forma di analisi di ciò che ha registrato (è lei stesso a tenere l’asta del microfono) e che ha chiesto al suo operatore John Davey di inquadrare?
È un modo di trovare una forma, di spiegare la realtà a me stesso. Le migliaia di ore che ho girato nel corso degli anni comportano centinaia di migliaia di scelte – di soggetti, di luoghi, di momenti – durante le riprese e il montaggio. Si tratta quindi chiaramente di fiction, o di ciò che una volta ho definito scherzando reality fiction. Visiono il girato a mano a mano, tutte le sere, con il mio operatore, ma non monto progressivamente. Le giornate sono troppo stancanti e il montaggio è un’operazione molto precisa, non è un’attività mentale.
Quanto era importante richiamare la storia americana nel corso di tutto il film?
Nel film ci sono riferimenti alla guerra degli immigrati inglesi contro gli indiani, alla dichiarazione d’Indipendenza dall’Inghilterra, alla guerra di Secessione e all’abolizione della schiavitù. Ma questi riferimenti suggeriscono anche che l’America è costantemente in guerra. In un’altra scena ci sono ex soldati della Seconda guerra mondiale, reduci della Corea, del Vietnam, dell’Iraq e dell’Afghanistan. A un livello più astratto l’idea è che il governo è associato alla guerra. Senza governo è la guerra. La missione dello Stato è proteggere le persone. E questo significa tanto mantenere la pace quanto proteggere la gente facendo in modo che il cibo che mangia nei ristoranti sia sano. Il governo pone dei limiti, senza i quali i cittadini sarebbero costantemente in guerra.