Presentato Fuori Concorso alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, giovedì 24 febbraio uscirà nelle sale italiane L’Accusa, il film diretto da Yvan Attal tratto dal romanzo Les Choses Humaines (Le Cose Umane) di Karine Tuil, che vede protagonisti Charlotte Gainsbourg, Matthieu Kassovitz e Ben Attal.
Il film
I Farel sono una coppia sposata formata da Jean (Pierre Arditi), opinionista francese, e Claire (Charlotte Gainsbourg), saggista e femminista. I due hanno un figlio, Alexandre (Ben Attal), che studia in un’università americana ed è uno studente modello. Quando si reca a Parigi, Alexandre si imbatte in Mila (Suzanne Jouannet), una giovane donna figlia dell’amante di sua madre e la invita a prendere parte con lui a una festa. Il giorno successivo la ragazza denuncia Alexandre per stupro. È una vittima o solo in un desiderio di vendetta, come sostiene l’imputato? L’accusa di violenza porta l’equilibrio familiare dei Farel a incrinarsi e le loro vite in frantumi, ma quale è la verità?
Yvan Attal
Per addentrarci nelle tematiche del film, vi proponiamo di seguito un estratto dell’intervista rilasciata da Yvan Attal.
Com’è arrivato nelle sue mani il libro di Karine Tuil?
Il romanzo era appena uscito. Ero interessato all’autrice, della quale avevo già letto altre cose, e all’argomento: un ragazzo accusato di stupro in seguito a una festa. La narrazione mi ha sconvolto. Mi ha commosso l’imputato (nel quale potevo rivedere mio figlio), mi ha commosso la vittima (nella quale potevo rivedere mia figlia), mi sono completamente identificato nei genitori dei due giovani coinvolti in questo fatto di cronaca. Ho modificato la struttura della storia – c’è “lui”, poi “lei” e infine il processo – perché lo spettatore abbia il tempo di affezionarsi a loro. Volevo sapere da dove venivano, chi erano, come entrambi avevano passato la serata che precede il dramma, perché lei riteneva che lui l’avesse stuprata e perché invece lui credeva che lei fosse stata consenziente. Il tema era attuale, i personaggi complessi. E, per la prima volta, questo libro mi ha fornito l’occasione di allontanarmi dalla commedia, di ritrovarmi in un tipo di cinema che mi ha fatto venire voglia di fare cinema con elementi che non avevo mai avuto occasione di riprendere: un commissariato, un tribunale, una perquisizione, e così via.
Oltre al materiale del romanzo, ha svolto delle ricerche personali?
Durante la stesura ho incontrato giudici, poliziotti e avvocati per comprendere il più possibile il loro campo d’azione, la loro concezione del mestiere. Il romanzo mi ha fornito del bel materiale drammatico ma avevo bisogno di immergermi nel sistema, nell’arena in cui tutti operano. L’aula del processo è quella che mi ha segnato di più: vi regna il silenzio, una tensione molto forte. Non è un teatro. Gli avvocati ovviamente indulgono in “performance”, a volte teatrali, ma il loro obiettivo è quello di colpire forte e di convincere, perché la posta in gioco è molto alta. Ho assistito a un processo per stupro. Lì, non c’era alcun dubbio che l’uomo fosse colpevole. Ma nonostante tutto, c’è un essere umano dentro al box e un altro al banco degli imputanti. Ci sono in gioco molte vite e malgrado tutte le convinzioni, le emozioni, si esce scossi. La lettura del romanzo non era stata sufficiente, dovevo vivere questa esperienza. È ciò che ha guidato la mia messa in scena: rimanere a lungo sui personaggi per evitare il superfluo.
Aveva qualche riferimento sull’argomento?
È evidente quello di Sydney Lumet. Il suo modo di filmare essendo sempre corretto verso i suoi personaggi. Il suo modo di dire senza dire, senza voler a tutti i costi trasmettere un messaggio. E il suo modo di affrontare argomenti seri continuando a fare cinema, un cinema per tutti. Ma la scena della perquisizione, per esempio, si ispira al modo in cui Woody Allen filma in piano sequenza dentro gli appartamenti. Non faccio preferenze. Mi piacciono i film noir e le commedie. L’importante è mettere la mia visione del cinema al servizio della storia. Non voglio che la regia risulti troppo evidente. Tutto ciò che porta lo spettatore fuori dal film è male. Detto questo, sono sempre stato un fan dei film sui processi. Sono un ottimo esercizio per coinvolgere lo spettatore: la messa in scena e il montaggio sono significativi. Ne ho rivisti e scoperti molti per vedere come se la sono cavata i registi con un’ambientazione unica, un dialogo prolungato, degli attori statici. Quello che mi ha influenzato maggiormente è La Parola Ai Giurati, perché Sydney Lumet si rinchiude in una stanzetta con i membri della giuria senza spostarsi, per concentrarsi sulla complessità umana.
Come ci si spiega che i film ambientati nei tribunali, molto apprezzati negli USA, sono ancora poco sfruttati in Francia?
Probabilmente spaventa l’aspetto statico delle sequenze. Io stesso mi sono chiesto “Come fare per interessare lo spettatore per un’ora, avendo una sola ambientazione e dei personaggi che non si muovono?” Guardando film sui processi, mi sono reso conto che non aveva senso muovere la videocamera quando non doveva muoversi. Nel film, quando entriamo nel Palazzo di Giustizia, sono passati due anni. Ritroviamo tutti i protagonisti. La loro vita è cambiata. Ma appena inizia l’udienza, non esistono più. Quando riprendo un testimone – un esperto, la vittima, l’imputato o i parenti – la camera rimane fissa su di lui. Non c’è ragione di preoccuparsi delle inquadrature che mostrino la reazione degli altri protagonisti.
Dall’avvento di #MeToo, questo è il primo film che tratta di uno stupro. Non ha avuto un po’ di paura?
No! Soltanto oggi ho cominciato ad avvertire una certa pressione. Ho sempre saputo che questo momento sarebbe arrivato, ma mentre facevo il film mi rifiutavo di pensarci. Mi dicevo “Questa storia è forte, mi commuove, allora la racconto”. Nell’epoca della libertà di parola, il film ha ovviamente un significato politico e sociale. Questo è un argomento importante da affrontare, senza essere manicheo. E poi il film è tratto da un romanzo scritto da una donna, e io vivo circondato da donne: mia madre, mia nonna, Charlotte, le mie due figlie. Non posso che essere femminista, tanto più che mi sento meglio in compagnia di donne che di uomini. Stando così le cose, ero consapevole che stavo facendo un film che può dividere. Alcuni sono concilianti, altri provocano il dibattito. Ma per definizione, il dibattito è la contraddizione.
Cosa dire a quelli che potrebbero rinfacciarle che lei non abbia preso le parti della vittima?
Effettivamente avrei potuto fare un film con un imputato violento chiaramente colpevole. Ma ciò che mi interessava era mettere lo spettatore al posto della giuria, davanti a un caso dov’è la parola di uno contro quella dell’altra. Per il ragazzo, volevo sottolineare l’aspetto commovente della sua personalità, nonostante la violenza di cui è accusato. Per quanto riguarda la ragazza, anche se proviamo per lei un’empatia immediata, volevo insinuare un briciolo di dubbio sulla sua testimonianza. Non per renderla antipatica – questo è fuori questione – ma per mettere in luce la difficoltà di giudicare in un caso di questo tipo. Per preparare il film, lo ripeto, ho assistito al processo di un uomo accusato di stupro e reo confesso. Guardavo questo ragazzo corpulento, seduto nel box, senza empatia, come si osserva un animale in gabbia. Poi i magistrati hanno ripercorso la sua storia, per cercare di capire cosa lo aveva portato lì. Ho realizzato che l’emozione mi aveva fatto dimenticare che, anche se era un imputato che aveva commesso un atto mostruoso, in lui c’era una parte di umanità. La tensione che regnava nell’aula era impressionante. Era in gioco la vita di un uomo, e la responsabilità di decidere quale fosse la pena è ricaduta su uomini e donne che dovevano giudicare un loro simile.
Per finire, di cosa parla il film?
Di come ogni storia sia complessa. Se non si hanno tutti gli elementi, si ha una visione falsata. Solo un’indagine e un processo permettono di confrontare le versioni. Ma anche in queste condizioni, quando si ha a disposizione un caso che necessita di mesi di indagini, è difficile fare giustizia.
Cosa desidera condividere?
Delle emozioni. Non dimentico che quando uno spettatore entra in sala, qualsiasi siano i suoi gusti, non chiede che una sola cosa: imbarcarsi dentro una storia, un film generoso, che lo commuova, lo faccia ridere o riflettere.