La rabbia e il dolore di un intellettuale verso l’ascesa della dittatura militare franchista. Da giovedì 26 maggio arriva al cinema Lettera a Franco, il nuovo film diretto dal grande regista spagnolo Alejandro Amenábar, già vincitore di 5 premi Goya.
Il film
Spagna. Estate 1936. Il famoso scrittntrarciore Miguel de Unamuno (Karra Elejalde) decide di sostenere pubblicamente la ribellione militare, che promette di portare ordine nella disastrosa situazione del paese. Il governo repubblicano lo rimuove immediatamente dalla carica di rettore dell’Università di Salamanca. Nel frattempo, il generale Franco (Santi Prego) invia le sue truppe al fronte ribelle, mietendo i primi successi, con la segreta speranza di assumere il pieno comando della guerra. La deriva sanguinosa del conflitto e l’arresto di alcuni dei suoi compagni fanno sì che Unamuno metta in discussione la sua posizione iniziale e rivaluti i suoi principi. Quando Franco trasferisce il suo quartier generale a Salamanca e viene nominato capo dello Statonazionalista, il filosofo si reca al suo palazzo per chiedere clemenza.
Alejandro Amenábar
Per addentrarci nelle tematiche del film, riportiamo qui sotto l’intervista integrale rilasciata dal regista Alejandro Amenábar.
A cosa si riferisce il titolo originale Mientras Dure La Guerra (letteralmente, Finché Dura La Guerra)?
Per me questa frase ha due significati: da un lato, fa parte di un documento firmato dal bando nazionalista all’inizio della guerra, che fu fondamentale per la presa di potere da parte di Franco. Ma, soprattutto, è una riflessione che voglio lanciare al pubblico. Siamo noi a essere in guerra costantemente, a non capirci gli uni con gli altri.
Qual è il motivo del dibattito sociale scatenato dalla frase di Unamuno nel film?
La frase “Vincerete, ma non conquisterete” ha trasformato Unamuno in un mito, ma non esistono registrazioni o trascrizioni del discorso e si tramandano versioni diverse di ciò che ha detto. Ciascuna delle parti diffuse la propria propaganda, da qui nasce la controversia. Si discute anche su ciò che Millán Astray disse o non disse. Ecco perché affrontare la scena di quel discorso è diventato per me un atto di massima responsabilità. L’ho preparato con attenzione, consultando ogni tipo di documentazione e testimonianza di entrambe le parti, ho scritto e girato la scena scrupolosamente. Per me, la prova più evidente del fatto che Don Miguel scatenò un inferno è che, quello stesso pomeriggio, gli fu revocata l’iscrizione come socio al circolo ricreativo di Salamanca: in pratica, lo buttarono fuori. Due giorni dopo fu rimosso dalla posizione di rettore dell’Università di Salamanca, e misero una guardia fuori dalla porta di casa sua. In altre parole, doveva essere successo qualcosa di grave.
Gli spettatori di oggi si riconosceranno negli eventi ritratti nel film?
Credo che il film funga da catarsi per gli spettatori di oggi, e che il panorama che ritrae sia legato alla nostra attuale situazione politica più di quanto si possa pensare. Penso che le crisi e le rivoluzioni si ripropongano ciclicamente nella storia: a volte aiutano la società a progredire, a volte purtroppo no. In Europa, durante la prima metà del XX Secolo, nacquero movimenti fascisti. Oggi non è difficile vederli risorgere. Gli estremismi hanno un peso sempre più grande ed è preoccupante immaginare le possibili conseguenze, perché sappiamo come vanno a finire: una guerra mondiale e, nel caso della Spagna, una guerra civile. Ecco perché sento che questo film parla più del presente che del passato. Ti faccio un esempio tangibile: quando porto il cane al parco incontro sempre un gruppo di pensionati, anche loro lì a spasso con i cani. Alcuni sono repubblicani, altri chiaramente franchisti…E discutono di politica tra di loro. Trovo molto sano che si incontrino tutte le mattine per chiacchierare animatamente, ma spero che non si vada mai oltre, perché ottant’anni fa si sarebbero sparati a vicenda. Volevo anche parlare di questo nel film, di una Spagna che dialoga. C’è una scena in cui Unamuno e Salvador Vila hanno un diverbio di natura politica in mezzo alla campagna. Ho inserito quella discussione all’ultimo momento perché mi sono reso conto che era un’opportunità per far conoscere al pubblico le “due Spagne”, che continuano a coesistere. Si vedono loro, seduti a discutere, mentre la telecamera si allontana. Per me, la cosa più bella è che, dopo la tempesta, i due si calmano e continuano a camminare fianco a fianco.
La storia vuole essere un parallelismo tra uomini di lettere e uomini d’armi?
Tutto iniziò con Unamuno e il suo famoso discorso, che rappresenta la sua presa di posizione sul conflitto armato. In sostanza, Unamuno affermò che una delle parti non gli andava a genio, ma l’altra anche meno, e la cosa sorprendente è che lo fece nel contesto più pericoloso possibile: durante la Festa della Razza, pur sapendo che altri intellettuali come García Lorca erano già stati assassinati senza nemmeno aver preso posizione apertamente. Rischiò letteralmente la vita, dimostrando un coraggio che a molti di noi sarebbe mancato. E poi abbiamo la storia di come si sviluppò il conflitto e come il potere venne distribuito tra i generali nazionalisti. Da una parte la presa di potere dell’uomo d’armi, Franco, dall’altra la presa di coscienza dell’uomo di lettere, Unamuno. Le due trame si sviluppano parallelamente per gran parte del film, e consolidano ancora di più il loro significato quando i due personaggi si incontrano.
Si può dire che nel film si assiste a un momento di importanza storica per la Spagna e, allo stesso tempo, al racconto della vita di un mito? Avete avuto il sostegno della famiglia, per ricostruire quel percorso così intimo dello scrittore?
Per noi era chiaro che non sarebbe stato un semplice elogio della figura di Unamuno e, al tempo stesso, cercavamo l’appoggio e la collaborazione della sua famiglia. Hanno letto la sceneggiatura e sono stati molto rispettosi, nonostante non ci sia unanimità su alcune questioni e il personaggio sia al centro di grandi controversie, oggi come in passato. Una di queste è: ha o non ha donato 5000 pesetas ai Nazionalisti? Sebbene grandi esperti e biografi, come Jean-Claude e Colette Rabaté, abbiano già studiato la figura di Unamuno, abbiamo deciso di rinunciare a consigli diretti per ricreare il personaggio, per evitare di esserne condizionati. Naturalmente, prima di scrivere ci siamo comunque immersi nella lettura della bibliografia esistente, compresa quella di Unamuno stesso. Per quanto riguarda questi temi, come per quelli più spinosi legati alla guerra, il mio approccio è sempre stato quello di raccogliere più informazioni possibili prima di prendere decisioni definitive sulla sceneggiatura. Credo che il film sia un ritratto fedele di ciò che Unamuno deve aver provato in quei mesi: messo all’angolo a Salamanca, nella sua stessa casa, ripudiato dai suoi amici e adulato dai suoi futuri nemici. Fu un vero calvario per lui, ma un processo che funziona da un punto di vista scenografico perché vediamo un personaggio che cambia, si evolve e si ribella.
Francisco Franco visse conflitti interiori simili, durante quei mesi?
Tutti pensiamo di avere un’idea chiara di Francisco Franco. Nel nostro immaginario è un’entità ben definita, ma credo che pochissime persone lo abbiano conosciuto davvero. Era impenetrabile, anche per i suoi collaboratori più stretti. Si reinventò più volte e costruì un’immagine di sé attraverso la propaganda del regime. Il personaggio che abbiamo cercato di ritrarre in questo film è un Franco che raramente si è visto prima, qualcuno che cerca segretamente di diventare “imperatore” del suo tempo. Mi chiedo fino a che punto Unamuno e i suoi contemporanei fossero consapevoli che l’intenzione di Franco era proprio questa. Sicuramente, in pochi se lo aspettavano. In una scena del film vediamo come ripristinò la bandiera monarchica e la marcia reale al suo quartier generale… A un certo punto, ebbe ben chiaro in mente come sostituire il re quando questo lasciò la Spagna. Franco era diventato il generale più giovane d’Europa, e pian piano escogitò la mossa perfetta. Era successo quasi per caso: il generale Sanjurjo morì e, improvvisamente, ecco Franco. Non era neanche un uomo particolarmente religioso, e volle associare la guerra alle Crociate e alla Reconquista per dare una dimensione epica alla sua campagna. In questa svolta ecclesiastica, fu indubbiamente influenzato da sua moglie Carmen.
È possibile rimanere imparziali nel descrivere eventi così reali e vicini a noi?
Credo sarebbe impossibile girare un film del genere con imparzialità, anche se fosse un documentario. Ci saranno sempre una prospettiva e un punto di vista personali, nonché una determinata intenzione. Rispettare lo spirito dei fatti e dei personaggi reali senza distorcerli e, soprattutto, non cadere nell’indottrinamento o nella manipolazione ideologica è tutt’altra cosa. Da spettatore, mi piacciono i film che lasciano spazio per pensare, ed è proprio ciò che cerco di promuovere da creativo: che la gente pensi, parli, discuta… Durante la scrittura della sceneggiatura e durante le riprese siamo stati affiancati da un esperto di storia e da un consulente militare, che era anche storico. Tra loro nascevano sempre discussioni su certi episodi, o dettagli: “cosa succedeva qui?”, “cosa si dicevano?”… Sentirli scambiarsi pensieri su questi temi come due grilli parlanti mi ha davvero aiutato a prendere decisioni su come girare il film, che forse risulterà scomodo solo agli occhi degli estremisti, perché io non lo sono. Di certo non volevo girare un film per farlo diventare simbolo di rivalsa o vittimismo di una o dell’altra parte, e spero che questo venga colto sia da persone di sinistra che di destra.
Tutto questo ha creato dibattiti tra gli spettatori?
Spero proprio di sì. Quando si fa un film, bisogna volere questo: dare alla gente qualcosa di cui parlare, qualcosa a cui pensare. Non sono nato in Spagna, ma l’ho girato da spagnolo. Non molto tempo fa ho scoperto che uno dei motivi per cui sono nato in Cile è che mia madre, che è spagnola, vi si recò per accompagnare sua sorella, il cui marito stava fuggendo dalla repressione di Franco. E poi i miei genitori tornarono in Spagna a causa dell’esplosiva situazione politica in Cile, quindici giorni prima del colpo di stato di Pinochet. Ciò vuol dire che la mia esistenza è segnata da due colpi di stato, qualcosa che non avevo mai realmente preso in considerazione. La guerra mi riguarda, anzi ci riguarda, da vicino. Ma vorrei che il film fosse conciliante, per il pubblico. Ecco perché per me, nel presentare il film finito, era così importante ricordare che le elezioni del 1977 hanno riportato la democrazia, perché fu un periodo da me vissuto e apprezzato fin da bambino. Un sistema che permette la convivenza tra persone con idee diverse. Per me è questo, ciò che conta: capire che è sano che tutti noi la pensiamo in maniera diversa. Se avessimo tutti le stesse idee, il mondo sarebbe un posto molto triste. Sarebbe una dittatura.