Giovedì 9 giugno uscirà nei nostri cinema L’Angelo Dei Muri, un dramma psicologico scritto e diretto da Lorenzo Bianchini con principale interprete Pierre Richard, qui al fianco di Iva Krajnc Bagola e la giovanissima Gioia Heinz.
Il film
Trieste. Un vecchio palazzo, un vecchio appartamento. Pietro (Pierre Richard) vive là, stancamente, finché la sua quotidianità regolare e solitaria non viene devastata da un’ordinanza di sfratto. L’anziano non vuole andarsene e mette a punto una strategia per continuare a vivere segretamente dentro casa: costruisce un muro in fondo al lungo corridoio dell’appartamento, un vero e proprio nascondiglio verticale dietro cui sparire. Una grata per respirare, una fessura per simulare un lucernaio, qualche buco per studiare le mosse del nemico (il proprietario, i potenziali nuovi inquilini). Il timore di venire scoperto diventa un’ossessione e ogni cosa lo fa sentire minacciato: il sibilo del vento, un’ombra, uno scricchiolio. Poi, un giorno, “il nemico” arriva davvero: è una madre disperata che vuole garantire un tetto alla figlia. Come reagirà Pietro? Che forma prenderà la sua guerra?
I fantasmi del passato
L’Angelo Dei Muri è la storia di una persona che è stata incapace di affrontare le conseguenze degli eventi drammatici che hanno segnato la sua vita. La storia investiga con sottigliezza le conseguenze psicologiche di una tale condizione emotiva, di un conflitto interiore fra la nostalgia per ciò che ha perduto e un senso di colpa con cui non riesce a venire a patti, e lo fa attraverso il linguaggio del cinema di genere. Pietro, nel suo estremo tentativo di sopravvivenza, riduce se stesso a mera ombra e sussurro. Bloccato nel suo passato, per Pietro solo i fantasmi di un’esistenza precedente sembrano avere sostanza mentre il suo presente è percepito come fonte di paura.
Lorenzo Bianchini
Vi presentiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Lorenzo Bianchini.
Mettiamo subito a fuoco l’essenza del tuo film: cos’è L’Angelo Dei Muri? Una favola nera? Un thriller dell’anima?
Entrambe le definizioni sono corrette e, al tempo stesso un po’ fuorvianti. Io, personalmente, vedo L’Angelo Dei Muri come una storia drammatica. Un dramma psicologico dove trovano spazio elementi magici.
Qual è stata la prima scintilla?
Per tutti gli altri miei lavori ce n’è sempre stata una, anche piccola, anche vaga, ma questa volta no: il punto d’innesco è derivato da un processo più lungo. Da una sensazione che mi porto dietro fin da quando ero bambino. Passavo molto tempo nella casa dei nonni, le case di una volta con le stanze grandi e i soffitti alti, e a volte immaginavo di trovare un angolo in cui nascondermi. Un posto segreto e, appunto, magico, in grado di proteggermi dai fantasmi nascosti nella penombra. L’Angelo Dei Muri ha a che fare esattamente con questo. Con la fantasia dell’infanzia e con la voglia di sognare, scomparendo in luoghi immaginari.
Perché hai deciso di uscire dalla comfort zone del cinema horror?
A me, in realtà, piace tutto il cinema, e non ho vissuto L’Angelo Dei Muri come una deviazione dal mio percorso “nella paura”. Dalla mia comfort zone tematica, narrativa e stilistica. L’Angelo Dei Muri è il risultato di una riflessione sulla solitudine, sulle solitudini, già iniziata con Occhi e poi sviluppata con Oltre il Guado. In questi due film la paura è evocata da ciò che risiede al di là del confine tra la vita e la morte, in quella zona misteriosa dove trovano ristoro le umane speranze di immortalità. L’angelo dei muri descrive una paura ancora più profonda, generata da un vecchio trauma irrisolto.