La sicurezza in se stesso. È di questo che si è sempre vestito Elvis Presley, anche quando non era ancora nessuno. Dalla polvere del Mississippi, dove è nato e cresciuto, in povertà, ai palcoscenici di tutto il mondo, dove è diventato l’indelebile stella che tutti conosciamo. Elvis si è guadagnato sempre il rispetto di tutti mostrandosi per ciò che era, un artista che sfiora il divino, sceso sulla terra per dare corpo e anima ad una generazione che aveva il disperato desiderio di esprimere (finalmente) se stessa. Poteva anche non aprire bocca e non cantare, o restare immobile e non ballare: è sempre stato Lui, Elvis, lo Spettacolo. Con il suo modo di vestire, la sua acconciatura, i suoi mitici accessori – elementi di uno stile inedito, unico, inconfondibile – Presley tra gli anni ’50 e ’70 ha ridefinito la cultura popolare in tutto il pianeta seguendo l’istinto più grande: l’autenticità. E lo ha fatto fregandosene del giudizio dei mass media. In scena, Elvis era sempre e solo Elvis. Carismatico, estroso, esuberante.
Un precursore assoluto
E soprattutto intramontabile. Ripercorrere la sua vita e la sua carriera nell’omonimo Elvis, il film diretto da Baz Luhrmann – tra i registi di fama mondiale più glamour di sempre – ci farà capire una volta di più quanto quel giovanotto (interpretato dal sorprendente Austin Butler) dalla voce sensuale e dai movimenti di bacino proibiti fosse “avanti” rispetto al mondo che lo circondava. La pellicola – dal 22 giugno nelle sale – ha come protagonista anche Tom Hanks, qui nei panni del colonnello Tom Parker, l’enigmatico manager di Elvis che prima di tutti intuì il suo spirito ribelle e rivoluzionario. Un modo di essere e di esprimersi che avrebbe cambiato per sempre (ed eternamente) lo stile e il modo di stare al mondo di intere generazioni che in lui hanno visto un messia. Senza più maschere, con le spalle girate ad ogni forma di conformismo dettata “dall’alto”.
Spazio all’individualità
Pantaloni larghi, camicie con motivi floreali, gli anelli su misura. Ogni dettaglio scelto da “The King” rispecchiava una parte della sua anima. Una necessità, quella di vestirsi per ciò che era, che nell’America degli anni ’50, nei primi anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, diventò un’arma di resistenza per tutti quei ragazzi che volevano ribellarsi agli Stati Uniti sognati e idealizzati dal Presidente Dwight D. Eisenhower che voleva – supportato anche dall’avvento della tv (vero e proprio “educatore” della società) un’America cristiana, borghese, educata e suburbana. Ma la realtà ara diversa: i giovani stavano infatti sudando sotto il colletto, travolti dai desideri del loro tempo, vogliosi di sfogarsi e di ballare, in nome della Libertà più assoluta. Pulsioni e bramosa fame di vita che il nuovo rivoluzionario genere musicale del Rock’n’roll incarnava alla perfezione. È qui che è nato il mito di Presley, nel preciso momento in cui la cultura del conformismo sociale si è trasformata nella cultura dell’autoespressione: l’audace moda di Elvis è diventata il simbolo di una generazione che voleva definire se stessa attraverso la ribellione e l’individualità.