Il film
Nella Medina di Casablanca, Abla (Lubna Azabal), madre di una bambina di otto anni, manda avanti una pasticceria marocchina. Quando Samia (Nisrin Erradi), una giovane donna incinta, bussa alla sua porta, Abla non immagina che la sua vita cambierà per sempre. Un incontro col destino, due donne in fuga, un viaggio verso ciò che conta davvero.
Maryam Touzani racconta…
“Adam è la storia di due anime solitarie che si abituano l’una all’altra, si confrontano e si uniscono, di due donne prigioniere, ciascuna a modo suo, che cercano rifugio nella fuga, nel rifiuto della realtà. Samia è prigioniera del bambino che porta in grembo, di quella vita che le cresce dentro, giorno dopo giorno, che si materializza nonostante tutto. Abla è prigioniera di una morte che ha congelato la sua esistenza, di un lutto che ha rifiutato di affrontare, che l’ha trasformata in un essere incorporeo. Queste due donne sono messe di fronte a ciò che di più bello e di più crudele ha da offrire la vita. E al centro di tutto, la nascita, la maternità. Questa cosa inafferrabile, che ci trascende, che risveglia i nostri più primitivi istinti, per quanto sopiti siano. In Adam, la vita si impone, come la morte, in tutta la sua potenza…“.
“Questo film è nato da un vero incontro, doloroso, ma ispirante, che ha lasciato in me tracce indelebili. Ho conosciuto la giovane donna che ha ispirato il personaggio di Samia. Sbarcò a Tangeri, in fuga dalla sua famiglia, dopo essere stata messa incinta e poi abbandonata da un uomo che aveva promesso di sposarla. Per paura, per vergogna, non aveva detto niente ai suoi familiari e aveva nascosto la sua gravidanza per mesi. Lontano da casa, sperava di partorire di nascosto e di dar via il bambino, per poi tornare nel suo villaggio. Quando suonò alla nostra porta, i miei genitori l’accolsero in casa, senza conoscerla. Sarebbe dovuta restare solo qualche giorno, ma si trattenne settimane, fino alla venuta al mondo del suo bambino“.
“Samia era dolce, riservata, amava la vita. Fui testimone del suo dolore e della sua gioia di vivere e soprattutto del suo dilaniamento di fronte al bambino che si sentiva in obbligo di abbandonare per andare avanti, del suo rifiuto di amarlo, all’inizio, quando si rifiutava di guardarlo, di toccarlo, di accettarlo. Vidi questo bambino imporsi, poco a poco, e il viscerale istinto materno risvegliarsi, nonostante gli sforzi per soffocarlo. Vidi amarlo, nonostante tutto, dell’amore indecifrabile di una madre, consapevole che il tempo con lui era contato. Il giorno in cui lo diede via, volle mostrarsi forte, dignitosa. Capivo il suo gesto e trovavo il suo atto coraggioso, perché sentivo la sofferenza che questo abbandono rappresentava. Allo stesso tempo, dentro di me, speravo che lo tenesse, che affrontasse la società, i suoi genitori, la sua famiglia. Ero certamente ingenua, e lo sono ancora, senza dubbio. Ma so anche che la sua ferita non si rimarginerà mai. Non immaginavo, all’epoca, che avrei portato questa donna dentro di me per tutti questi anni“.
“Quando sentii per la prima volta il mio proprio figlio muoversi dentro di me, quando vidi il mio ventre ingrossare e trasformarsi in un ventre di madre, pensai a questa giovane donna. Alla sua scelta, al suo dilaniamento. E sentii l’urgenza di scrivere, di raccontare. La sua storia si unì alle mie ferite, alla mia esperienza della perdita, dell’angoscia che si prova, del rifiuto, del lutto inespresso, ma anche alla mia gioia di essere madre. Così Adam cominciò a prendere forma“.