Era il 1953 quando Federico Fellini, ne I Vitelloni, raccontava di giovani scanzonati e volutamente abulici in un’Italia che cresceva florida dopo la fine del secondo conflitto mondiale. In quel film – che ottenne una candidatura ai Premi Oscar e fu premiato alla Mostra del Cinema di Venezia con il Leone d’Argento – troneggiava un attore che condivideva con il regista lo stesso anno di nascita (1920, un secolo fa): Alberto Sordi. Ricordare questo film ci sembrava il modo migliore per ricordare l’Albertone nazionale che proprio l’oggi – 15 giugno – di cento primavere fa nasceva a Roma.
Il film
Quattro trentenni di una piccola città di mare, vivono nell’eterna attesa di diventare adulti. Durante le stagioni invernali, si trascinano fra il biliardo e il caffé, fra velleità letterarie, scherzi goliardici e facili avventure erotiche, in una dimensione di ozio irresponsabile. Li segue con ingenua ammirazione il più giovane Moraldo, che gradatamente si libera dall’influenza di Fausto, dongiovanni da strapazzo e decide di abbandonare il tepore protettivo del borgo per affrontare il viaggio alla volta di Roma. Fellini intreccia le vicende dei quattro vitelloni (interpretati magistralmente, oltre che da Sordi, da Franco Fabrizi, Leopoldo Trieste e dal fratello Riccardo), adottando una narrazione vivacemente frammentaria che culmina in sequenze di sottile amarezza (l’atmosfera disfatta del dopo Carnevale) e in situazioni beffarde (la tentata seduzione di Leopoldo da parte di un vecchio guitto omosessuale). Per la prima e unica volta nel cinema felliniano, il mondo degli adulti (i genitori dei vitelloni) è rappresentato come un modello etico, senza ambiguità.
Il vitellone simbolo di un Paese
Per quei vitelloni – seduti al bar a perdere il giorno, una sigaretta dietro l’altra, girati verso il sole anche d’inverno come lucertole in bella posa – valevano due regole. La prima: divertirsi. La seconda: non lavorare. Non necessariamente in quest’ordine. Mentre gli altri pensavano a fare i danè, il gruppetto di scapestrati, capeggiato da un Alberto Sordi in piena forma, si permettevano gozzoviglie, amori clandestini, pernacchie e gesti dell’ombrello e furbizie d’ogni tipo e misura per campare alla meglio. Ma tanto quella era l’Italia del boom economico, che di lì a poco avrebbe sconvolto tutte le vite degli abitanti del Belpaese; era l’Italia che si avvicinava speranzosa ad una nuova era. L’era del progresso tecnologico, della Tv, della velocità, della conquista dello spazio, dei film americani e della spensieratezza. I desideri di libertà, maturati dopo la guerra (intesa come apice di vent’anni di dittatura), si insinuavano nelle nuove generazioni e si spandevano a macchia d’olio. Il Paese era come una lampada di Aladino, da cui si materializzavano i sogni di tutta la popolazione, almeno fino alla fine degli anni Sessanta. E la società era lanciata in una (nefasta?) corsa all’oro, a volte coi soldi degli altri (furono gli States, attraverso il Piano Marshall, a permettere all’Europa dell’ovest di ricostruirsi).
Alberto Sordi, unico e inimitabile
Le riprese si svolsero per lo più a Ostia e, nelle prime copie del film, i distributori non vollero figurasse il nome di Sordi, che a quell’epoca ritenevano fosse sgradito al pubblico. Un pensiero che oggi fa tremare i polsi: Alberto Sordi diventò presto l’arci-italiano per antonomasia; l’eclettico attore, regista, comico, sceneggiatore, compositore, cantante e doppiatore; l’amatissimo protagonista di film che hanno accompagnato (e continuano a farlo) generazioni e generazioni di italiani. Unico e, anche se imitato, inimitabile.