Il premio Oscar Hilary Swank e la star in rapida ascesa Emmy Rossum duettano in Qualcosa di Buono, un ritratto sorprendentemente divertente, provocatoriamente amaro e commovente di un’amicizia ad alto rischio tra due donne: una che ha letteralmente bisogno di trovare una voce e l’altra alla scoperta di tutto il suo potere. Il film, diretto da George Wolfe, sarà al cinema da giovedì 27 agosto.
Kate (Hilary Swank) è una pianista di musica classica di successo, sposata e dai modi garbati, a cui è stata diagnostica la SLA (più nota con il nome di malattia di Lou Gehrig). Bec (Emmy Rossum) è un’estroversa studentessa universitaria e aspirante cantante rock che riesce a malapena a destreggiarsi in una vita estremamente caotica e confusionaria sia sul piano delle relazioni romantiche che in altri ambiti. Eppure quando Bec decide di accettare la disperata proposta di lavoro come assistente di Kate, proprio quando il matrimonio di Kate con Evan (Josh Duhamel) comincia a entrare in crisi, le due donne si affidano a ciò che diventerà un legame non convenzionale, a volte conflittuale e ferocemente onesto.
Senza una meta chiara nella vita, Bec è decisa a diventare l’ombra di Kate accompagnandola e traducendo per lei le situazioni più sconcertanti e goffamente comiche. Il risultato è un cameratismo ridotto all’estremo essenziale, fatto di sostentamento quotidiano e confessioni a notte fonda. Ma quando la sensuale, meticolosa e ostinata Kate comincia a influire sulla confusa, spontanea e inafferrabile Bec e viceversa, entrambe le donne si trovano faccia a faccia con i rispettivi rimpianti, esplorando nuovi territori ed espandendo la propria idea su chi in realtà vogliono essere.
Il titolo originale You’re Not You nasce da qualcosa che Kate dice a Bec ma per molti aspetti è una frase che riguarda entrambi i personaggi. Kate non è la vera Kate. Bec non è la vera Bec. Evan non è il vero Evan. Ogni personaggio è prigioniero dell’immagine che dà di sé, fino al momento in cui comincerà a prendere coscienza dell’esistenza di un’immagine più complessa, evoluta e profonda che può essere la propria interiorità. Lungo il percorso del film, ciascun personaggio si avvicinerà sempre più alla propria vera identità.
Il film è tratto dal romanzo-rivelazione You’re Not You di Michelle Wildgen del 2006 (Qualcosa di Buono, edito in Italia da Vallardi). La storia di una giovane donna dalla vita ribelle e frenetica che, seguendo l’impulso del momento, decide di accettare il gravoso compito di assistere una nota musicista affetta da SLA poteva facilmente virare verso i prevedibili toni del melodramma. Al contrario, il romanzo è stato invece lodato per la sua capacità di divertire in modo semplice e rivelare argomenti che vanno dal sesso alle lezioni di cucina fino alla commovente intimità di una amicizia nata da una combinazione di evidente necessità e progressiva fiducia.
La forza del film risiede nella grande capacità di definire il ritratto di due donne, apparentemente così diverse tra loro, e della grande amicizia che le legherà per sempre. Contrariamente a quanto si possa pensare, il trait d’union nel rapporto tra Kate e Bec non è la malattia (lei – Bec – riesce a non farmi sentire una paziente – cit. Kate) ma l’umorismo e i momenti di spensieratezza che attraversano l’intera evoluzione della storia. Bec riesce, con la sua inesperienza professionale, al limite della goffaggine in alcuni momenti, e il suo modo di vivere alla giornata, a donare a Kate un sorriso, a darle un nuovo punto di vista, coinvolgendola in una serie di situazioni divertenti grazie alle quali entrambe impareranno ad essere altro da loro.
“Tu non sei tu, tu sei me“: in queste parole è racchiusa la più importante e fedele sintesi di questa loro storia. Così come il romanzo da cui è tratto, il film si rivela candidamente divertente e rivelatore su argomenti che vanno dal sesso alle lezioni di cucina, passando per la commovente intimità di un’amicizia costruita sulla base di un mix di bisogni sinceri e di fiducia reciproca.
Fin dall’inizio George C. Wolfe ha voluto fare dell’autenticità la colonna portante del film: l’autenticità delle due donne al centro della storia, l’autenticità della vera amicizia e, soprattutto, l’autenticità delle esperienze vissute dai malati di SLA. Per questo il regista ha chiamato, come consulente, l’infermiera professionale Mary Beth Geise con un’esperienza pluridecennale nell’assistenza ai pazienti di SLA. La Geise ha lavorato in stretta collaborazione con Hilary Swank, condividendo le sue conoscenze sui movimenti, il linguaggio e i cambiamenti a cui vanno incontro nel tempo le persone affette da questa malattia.
Fin dall’inizio Hilary Swank è stata animata dal desiderio di rendere piena giustizia a Kate. Il processo lungo e intenso ha inizio con una riflessione sulla profonda ambizione personale di Kate nell’ambito della musica, del matrimonio e dell’intera visione della sua vita prima che si verifichino gli eventi della storia: “Kate è sempre stata una perfezionista – osserva Hilary Swank – credo che per una lunga serie di ragioni Kate abbia sempre amato avere il controllo totale di ogni aspetto della sua vita ma ora quel controllo viene improvvisamente spazzato via. L’unico aspetto che è ora in grado di controllare è il modo con cui affrontare tutto ciò che le sta accadendo”.
Per l’attrice, la bellezza del personaggio risiede “nella sua capacità di comprendere se stessa lungo ogni passo di questo cammino, constatare le conseguenze che implica sui rapporti e avere non solo una visione più chiara delle persone che la circondano ma anche riuscire a mostrarsi in un modo in cui non era mai stata capace di fare”.
“Tu non sei tu. Sei me”